venerdì 23 dicembre 2016

Se cede #Shengen, vince il terrorismo.

Sospendere Shengen, ripristinando i controlli alle frontiere nazionali, a seguito del recente attacco terroristico a Berlino, sarebbe un errore dalle conseguenze incalcolabili. La libera circolazione delle persone non è solo il più immediato beneficio derivante dall'integrazione europea, ma è anche il segno tangibile di quanto l'Unione non sia una struttura con fini meramente commerciali, ma un valore e un'opportunità molto più ampia per l'esistenza dei suoi cittadini.

Stiamo affrontando una minaccia terroristica portata avanti da qualche centinaio di persone su una popolazione di centinaia di milioni. Davvero intendiamo cedere a questa infima minoranza? Davvero siamo disposti a prendere in considerazione una misura come la sospensione di Shengen, che colpirebbe duramente, anche a livello economico, milioni di persone? Se abbandoniamo Shengen, rendiamo i nostri popoli più poveri e più divisi, per inseguire una maggior sicurezza comunque incerta nell'an e nel quantum. Così facendo, consegnamo ai terroristi una vittoria che mai sarebbero in grado di ottenere da soli. I politici che chiedono l'abolizione di Shengen vorrebbero atteggiarsi a uomini forti, ma la via che indicano è quella del cedimento, della debolezza, dell'egoismo e della codardia.

La strada da seguire è esattamente quella opposta e si fonda su resilienza, coesione e cooperazione.
Dobbiamo potenziare la capacità delle nostre comunità di reagire positivamente a eventi traumatici e a stress persistenti, quali quelli generati dal fenomeno terroristico, trasformando la minaccia in una fonte di coesione e solidarietà tra gli individui e tra i popoli del continente. Dobbiamo poi studiare forme di cooperazione piú avanzate nell'intelligence, nella difesa e nella gestione della politica estera.
Le frontiere da sorvegliare ci sono già, ma non sono certo quelle interne, tra i singoli Stati nazionali: sono quelle dell'Europa.

domenica 20 novembre 2016

Kyenge shock: fotografata con Omar al-Mukhtār: ecco cosa è successo... una piccola riflessione su clickbait e disinformazione online.


Non c'è nessuna foto imbarazzante dell'On. Kyenge, anche perché Omar al-Mukhtār è stato impiccato nel 1931. Se hai visto questo titolo su un social network e ci hai creduto, la combinazione di parole chiave ha raggiunto il suo scopo. In tal caso, non è verosimilmente la prima volta che vieni ingannato in questo modo, per farti fare un click o, ancora meglio, una condivisione. Oggi, però, l'ho fatto perché non ne posso più di vedere decine dei miei contatti cadere così facilmente nelle trappole della disinformazione online e dei clickbaits.

Con questo ultimo termine si indicano dei contenuti specificamente concepiti per generare profitti pubblicitari ai siti che li ospitano, a scapito della verità e della qualità delle notizie, sfruttando titoli accattivanti e sensazionalisti o immagini d'effetto, che incitano a cliccare link e a farli condividere. Il tipico post clickbait é costruito in modo da darti abbastanza informazioni per attrarre il tuo interesse, ma non abbastanza da soddisfare la tua curiosità, così spingendoti a cliccare sul link. Generalmente. dopo aver cliccato, emerge l'effettiva scarsità di contenuto della pseudonotizia, partita con un titolo sensazionalistico che corrisponde in minima parte al contenuto della "notizia". Esistono interi portali anche in Italia, che vivono con questo espediente, alcuni dei quali, come tzetze, con un traffico e una diffusione imponente. Sul suo blog, Raffaele Giovanditti offre una serie di esempi di clickbait, una casistica che spiega più di mille parole.

In astratto, il clickbaiting non parrebbe un fenomeno così pericoloso. Sembra, più che altro, la versione online di quella forma di giornalismo scandalistico diffuso nel mondo anglosassone, noto come yellow journalism (un esempio probabilmente conosciuto anche in Italia è quello del "giornale" inglese Sun).  Tuttavia, quando questo genere di contenuti, grazie alla viralità delle piattaforme online, diventa una delle principali forme di informazione di una larga parte della popolazione, diventa un problema sociale e politico.

Questi contenuti esagerati, falsi o ingannevoli diventano ancor più pericolosi quando non sono semplicemente diretti ad arricchirsi, ma sono inseriti in un disegno di vera e propria propaganda politica. In questo caso non siamo più nel campo del clickbaiting inteso in senso stretto, ma nel campo di una forma nuova e virale di disinformazione. I giornali anglosassoni, negli ultimi giorni, stanno approfondendo proprio l'influenza avuta da questa disuctibile propaganda nell'elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.

Oltre alla viralità, questa forma di disinformazione è resa ancor più pericolosa da un fenomeno noto come echo chamber. Nella nostra vita digitale, ciascuno di noi tende a inserirsi in comunità di persone simili, visitando e collaborando a pagine/forum sulla base di comunanze di interessi e, collegandosi sui social network con persone a sé affini. In una tale comunità virtuale, un'opinione non viene spesso a trovarsi contrapposta a quella contraria, ma viene al contrario continuamente ribadita e rilanciata (per questo si chiama effetto "eco"), rafforzandosi quindi sempre di più a ogni passaggio, per ogni partecipante.

Faccio un esempio, necessariamente semplificato, per capirci: su un forum di discussione nazionalista, condivido un articolo con opinioni molto estreme contro i profughi, articolo rispetto al quale sono inizialmente solo in parte d'accordo, perché in effetti è forse fin troppo estremo. Se però le altre persone che frequentano il forum riscontrano tutte positivamente l'articolo e lo rilanciano, con nuovi post di uguale tenore, ciò rinforzerà la mia opinione, che inizialmente era favorevole ma non fino in fondo. Dopo alcuni passaggi, non mi porrò più dubbi e condividerò totalmente l'opinione estrema dell'articolo da me originariamente postato.

Nella realtà, questo avviene non tanto sul singolo post, ma sul complesso delle mie condivisioni nel corso del tempo, e tuttavia è reciproco, nel senso che io non solo ricevo l'eco degli altri, ma creo anche io un eco a ciascuno di loro. Un fenomeno del genere si è sempre verificato in tutte le comunità chiuse. Oggi però una percentuale sempre maggiore delle nostre interazioni sociali avviene tramite internet, mentre un tempo la discussione di temi politici e sociali si faceva essenzialmente dal vivo, spesso in luoghi pubblici come i caffè, i treni, i luoghi di lavoro e di studio. In questi luoghi, era inevitabile confrontarsi con una pluralità di opinioni, anche contrarie, e ciò portava a ripensamenti, riflessioni e mediazioni. L'esatto contrario di ciò che avviene oggi: ciascuno di noi interagisce principalmente in un fortino virtuale di persone che in gran parte già la pensano come noi.

In un tale ambiente, la disinformazione corre molto veloce. Infatti, leggendo una pseudo-notizia che corrisponde all'idea che già mi sono fatto su una determinata tematica (per esempio su un crimine apparentemente commesso da degli immigrati), tenderò a considerarlo vero, senza fare alcuna verifica, e magari condividerò di nuovo il relativo contenuto, così contribuendo a diffondere ulteriormente la falsità. Così faranno tutti gli altri nella mia "comunità virtuale" e la nostra opinione ne risulterà ulteriormente rafforzata, e così via in un ciclo continuo di radicalizzazione.

Eppure basterebbe poco per sgonfiare le menzogne. Per esempio, hai verificato che la notizia abbia una data precisa, e individui il tempo e il luogo dei fatti? Le bufale meno raffinate spesso non indicano quando è avvenuto il fatto, così da rendere impossibile una verifica e da poter ritornare virali anche a distanza di tempo. E poi, l'autore si è firmato? L'autore identifica le sue fonti? Se la fonte è un altro articolo, quest'ultimo ha a sua volta una fonte? Nota bene, un semplice link in ipertesto non è di per sè una fonte attendibile. Spesso articoli falsi usano come fonte... un altro articolo falso, magari con due o tre passaggi. Addirittura, una volta ho trovato un articolo A) che linkava come fonte l'articolo B), che linkava a sua volta come fonte l'articolo A).

Può accadere, ogni tanto, che qualcuno evidenzi che la notizia è una bufala. Tuttavia, in una comunità di opinioni omogenee, ciò non avverrà mai abbastanza spesso da fare cambiare opinione. La comunità infatti si auto-assolverà per aver condiviso la falsità, in quanto dopotutto essa è credibile, corrispondendo all'idea che i suoi membri si sono fatti della realtà. Non ho scelto il titolo sulla Kyenge a caso, ma sulla base di una discussione effettivamente letta su facebook. Un mio contatto aveva condiviso l'ennesima denuncia scandalizzata di una supposta dichiarazione offensiva contro gli italiani apparentemente proferita dall'ex ministro Kyenge. Dopo che - fatto raro - qualcuno aveva commentato fornendo una fonte che dimostrava la falsità della notizia, il suo autore aveva risposto qualcosa del genere: "sai, con tutte le cose indecenti e assurde che dice la Kyenge contro gli italiani, poteva anche starci".

Peccato però che la Kyenge non abbia mai insultato gli italiani, e le decine di dichiarazioni offensive o provocatorie che le sono attribuite siano tutte false, dalla prima all'ultima.

Prima di congedarmi, vi segnalo la lista nera dei siti di disinformazione/clickbait compilata da un noto sito di fact checking italiano. Magari, la prossima volta, prima di condividere un contenuto o di metterci un like, verificate anche l'attendibilità di chi lo ha pubblicato.



mercoledì 14 settembre 2016

#cyberbullismo: anche di fronte alla morte, il legislatore resti razionale.

Ore 00.15 di questa notte: appoggio la testa sul cuscino, sento il sonno che si avvicina. Di colpo, però, un pensiero balena e mi riporta alla lucidità. Mi rendo conto che la tragica notizia del suicidio di Tiziana Cantone, di cui ho letto poco prima su Facebook, non potrà non inserirsi nelle discussioni in corso sulla PDL Cyberbullismo

Le criticatissime norme penali introdotte in questa proposta, in parte snaturandola, e di cui molti si aspettavano la soppressione, potrebbero ora essere approvate sull'onda emotiva. Poco importa che la loro applicabilità al caso di specie sia dubbia, poco importa che non introducano un bel niente, ma trasformino -in peggio - qualcosa che già c'è. "Bisogna dare un segnale" è il messaggio che inizia a rimbalzare. 

Come ci testimoniano ancora oggi le opere di Manzoni, il potere, in Italia, ha una lunga e consolidata tradizione nel piegarsi alle invocazioni di forca provenienti dalle piazze. La logica, la razionalità e l'efficacia dissuasiva del sistema penale diventano inutili orpelli di fronte all'emozione totalizzante e alla rabbia vendicativa del popolo. Spero però che la Camera abbia la consapevolezza e il coraggio di non cedere, almeno oggi. Quanti danni vogliamo ancora fare cedendo a logiche emergenziali e a ondate emozionali nella costruzione del nostro sistema penale?

martedì 12 luglio 2016

#FederazioneEuropea, il migliore tra i futuri possibili.

Pochi giorni fa, si è tenuto un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione Europa, conclusosi con la vittoria del fronte del leave. Se, come pare ormai inevitabile, si avvierà la procedura per l'uscita della Gran Bretagna dall'UE, assisteremo al più significativo regresso del processo di integrazione europea.

Molti, anche qui in Italia, si rallegrano dell'esito referendario, auspicando la disintegrazione dell'Unione. Ormai, additare l'UE come responsabile di tutti i mali del continente è diventato un cliché in ampi settori della società, e tra i politici che la rappresentano.

Possiamo dare per assodato che il progetto europeo, così come realizzato ad oggi, soffre di due importanti limiti. Il primo è quello della legittimazione democratica. Malgrado gli interventi correttivi da ultimo previsti nel Trattato di Lisbona, la maggior parte degli organi dell'UE non sono dotati di diretta legittimazione democratica e, in ampi settori, il Parlamento ha un potere limitato. I maggiori poteri decisionali, all'interno dell'UE, risiedono ancora nel Consiglio e negli Stati Nazionali che lo compongono.

Il secondo limite è implicito nell'idea stessa di un'integrazione solo economica. L'integrazione non è uno status, ma un processo. Negli anni '60, l'economista Béla Balassa ha proposto uno schema, apprezzato ancora oggi, dei diversi, progressivi stadi di integrazione economica. Con ogni passo in avanti, si risolvono delle problematiche della situazione precedente, ma se ne creano delle nuove che dovranno, a loro volta, essere affrontate. L'Unione Europea è oggi arrivata, per i paesi della zona Euro, al penultimo stadio, ossia quello dell'unione economica e monetaria.

A fronte dello shock provocato dalla crisi finanziaria globale, poi diventata per noi crisi dei debiti sovrani, questa unione monetaria non sta funzionando. Secondo alcuni studiosi, i recenti, negativi sviluppi  dimostrano che l'Europa, attualmente, non è un'area valutaria ottimale.  A costo di semplificare, possiamo dire che, secondo questa teoria, una moneta unica può prosperare solo nell'assenza di shock asimmetrici, in presenza di una forte mobilità dei fattori produttivi e magari in presenza di sistemi di riequilibrio fiscale, anche di tipo federale. Elementi che, ad oggi, risultano problematici. A fronte di una politica monetaria unica, gli Stati europei continuano a porre in essere politiche fiscali separate, solo esternamente irrigidite - in negativo - da vincoli di bilancio, ma senza strumenti di riequilibrio. Non sono il solo a dubitare che una tale cesura tra una politica monetaria comune e politiche fiscali possa continuare indefinitivamente, alla luce dei profondi squilibri dell'eurozona. Il timore è che, se non si fanno passi avanti, sarà inevitabile farne indietro, regredendo significativamente nel processo di integrazione.

Fare un passo avanti significa, necessariamente, avviare l'integrazione politica. Con l'unione monetaria, siamo arrivati al livello massimo dell'integrazione "solo" economica. Il limite del funzionalismo economico è stato raggiunto. Diventa a questo punto necessario iniziare a mettere  in comune, a un livello ben più alto dell'attuale, anche le politiche fiscali, e quindi la spesa pubblica. Per fare questo, però, è necessario dare vera legittimità democratica alle istituzioni che dovranno gestire tale spesa (e quindi, direttamente o meno, le risorse raccolte attraverso la tassazione). Di fatto, è la logica insita nel principio del no taxation without representation che mi porta a guardare con sfiducia, almeno nel lungo termine, a tutte le soluzioni para-federali posticce sulle quali si sta riflettendo pur di mantenere viva l'illusione della sovranità nazionale. Esse finirebbero per acuire il problema della democraticità dell'Unione, indebolendone di fatto le fondamenta.

Solo una vera Federazione può consentire un'evoluzione del processo di integrazione davvero rispettosa del principio rappresentativo. Uno Stato plurinazionale, con un'unica soggettività internazionale, ma con un potere centrale limitato e ampie riserve di competenza ai singoli stati federati. Almeno inizialmente, è impensabile che un tale progetto possa estendersi a tutti gli Stati dell'Unione: i candidati al progetto federale sarebbero i membri fondatori CEE e gli stati della zona euro. Si creerebbe un sistema di integrazione differenziata, con la persistenza dell'Unione Europea, e al suo interno, come perno centrale, la Federazione. Certe problematiche paiono difficili da sormontare. Si pensi, anche da un punto di vista simbolico, alla complessità delle negoziazioni per individuare la capitale federale!

D'altra parte, pensiamo a qual'è l'alternativa. La costituzione di un mercato più ampio e privo di barriere non è il fine per il quale è stato iniziato il processo di integrazione, ma il mezzo. Il principale fine era è quello di impedire un nuovo conflitto tra gli Stati europei. Non a caso, il primo step del processo è stato la costituzione di una Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, all'interno della quale condividere liberamente e senza discriminazioni queste risorse, fondamento dell'industria bellica. I promotori dell'iniziativa non erano interessati a ottimizzare la produzione o favorire i commerci. Intendevano invece prevenire il riaccendersi della competizione franco-tedesca per il controllo delle risorse siderurgiche site nelle aree vicine al confine renano e nel Benelux, competizione che veniva riconosciuta fra le cause economiche scatenanti dei due conflitti mondiali.

Il consolidarsi di mercati nazionali chiusi porta necessariamente ad una competizione tra i relativi Stati nazionali, per assicurare ai propri capitali l'accesso a determinati territori, altrimenti escluso. Circostanze particolari e politici illuminati possono temporaneamente mediare i conflitti, che però rimangono latenti, in quanto strutturali. Anche in caso di crollo dell'UE, una guerra tra i paesi ex-membri pare oggi impensabile, almeno nei prossimi anni. E tuttavia, più ci proiettiamo nel futuro, più la possibilità di un nuovo conflitto acquista una sua consistenza. Dopo tutto, le nazioni non vivono nei decenni, ma nei secoli (se non nei millenni). Inoltre, se pure fosse impensabile una guerra classica, sul campo, tra due grandi nazioni europee, risultano ipotizzabili, anche nel breve termine, forme di scontro violento. Al di là della possibilità astratta di sabotaggi sul territorio nazionale o attacchi contro agenti o contro la popolazione civile, un conflitto potrebbe ben prendere la forma di una guerra per procura. Davvero pare così impensabile la prospettiva di uno scontro aperto tra fazioni tribali in Libia, ciascuna sostenuta da una potenza di riferimento, per il controllo delle risorse energetiche? Che influenza ha già dato, negli ultimi, recentissimi anni, lo scontro tra le sovranità nazionali alla destabilizzazione del Nord Africa?

L'Europa è circondata, a sud e ad est, da un ampio arco di destabilizzazione. Se consentiamo agli egoismi nazionali di prevalere, il caos si estenderà ulteriormente, e - in ultima analisi - molti più uomini moriranno. Ma è inutile lanciare generici appelli solidaristici paneuropei. Dobbiamo invece creare le condizioni strutturali che rendano obsoleto il conflitto nazionale in Europa - per ora solo sopito, ma non definitivamente superato, dall'Unione Europea. Una Federazione Europea non inaugurerà una nuova era di pace e amore, ma quantomeno eviterà che la guerra si estenda entro i suoi confini. E consentirà, soprattutto, di trasformare in realtà l'interesse comune europeo alla pacificazione del proprio limes, oggi ostacolato dai maggiori vantaggi che il singolo Stato può ottenere, a scapito degli altri, dalle dinamiche violente in atto. Già solo per questo, la prospettiva di un'Europa federale è l'unica che mi dia un minimo di ottimismo. E ciò senza considerare quanto una politica federale potrebbe fare per ridare una prospettiva alle classi popolari, per gestire razionalmente la grande questione migratoria, per affrontare il cambiamento climatico, per pianificare delle vere reti transeuropee di trasporto, per ottimizzare infinite voci di spesa a cominciare da quelle militari.

martedì 28 giugno 2016

Iura novit curia? Non per il Consiglio di Stato.

Pochi giorni fa, il Consiglio di Stato ha depositato la Sentenza n. 2806/2016, emessa nel procedimento n. 9095/2015 Reg. Ric.. L'esito di tale procedimento era particolarmente atteso - per opposte ragioni - dagli operatori dei servizi di taxi e di noleggio con conducente (NCC), in considerazione del potenziale impatto sul secondo di tali servizi. Il giudizio aveva infatti ad oggetto una sanzione amministrativa, sospensiva dell'autorizzazione all'esercizio del servizio NCC, irrogata nei confronti di un noleggiatore che non si era dotato di una rimessa all'interno del territorio comunale, come previsto dall'art. 3, comma 3, della L. n. 21/1992. La disposizione fu introdotta tramite il contestato articolo 29, comma 1-quater del Decreto Legge n. 207/2008, sul quale torneremo fra breve.

Nel corso del giudizio di primo grado, di fronte al TAR Lazio, era stata proposto un complesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, mirante a verificare la conformità delle norme interne a quelle europee e in particolare a quelle in materia di libera concorrenza, risoltosi tuttavia in un sostanziale nulla di fatto, posto che la Corte non è entrata nel merito delle questioni, ritenute in parte irricevibili, e in parte al di là della competenza della Corte stessa. Ripreso il procedimento, il TAR Lazio ha rigettato il ricorso del noleggiatore.

L'operatore NCC ha quindi proposto appello, riproponendo diversi motivi relativi - tra l'altro - al carattere discriminatorio  della disciplina del settore e al contrasto di quest'ultima con le norme, anche europee, in materia di libera concorrenza. Infine, l'appellante ha sostenuto che le norme dell'art. 29, co. 1-quater non siano attualmente in vigore. Il Consiglio di Stato non ha accolto nessuno dei motivi di appello proposti. In questa sede, intendo concentrarmi sull'analisi del solo - ma potenzialmente determinante - motivo d'appello relativo alla (non) vigenza delle norme introdotte nel 2008.

Richiamo integralmente la motivazione del C.d.S nella parte in cui ritiene che il motivo sia "inammissibile, ex art. 104, comma 1, c.p.a., nella parte in cui deduce l’inapplicabilità alla fattispecie delle disposizioni, degli artt. 3 e 11 della L. n. 21/1992, che stabiliscono l’obbligo di iniziare e terminare il servizio in una rimessa ubicata nel comune che ha rilasciato l’autorizzazione, in virtù delle norme di cui agli artt. 1, comma 388, della L. 24/12/2012 n. 228, e 8, comma 1, del D.L. 31/12/2014 n. 192, che ne avrebbero sospeso l’efficacia applicativa: trattasi, infatti, di censura nuova non dedotta in primo grado". Secondo quanto sostenuto dai giudici amministrativi, la nuova censura sarebbe inammissibile in quanto proposta per la prima volta in grado di appello. 

Tale tesi è inaccettabile. Se si sostiene che, in forza di una norma di Legge, la vigenza di una disposizione è sospesa, non si sta deducendo la mera "inapplicabilità alla fattispecie" della stessa, ma l'inesistenza, durante la sospensione, del relativo contenuto precettivo e quindi l'inapplicabilità a qualunque fattispecie. Negli ordinamenti giuridici moderni (e non solo) le parti non hanno alcun onere di allegare o provare il diritto al giudice, in forza del basilare e secolare principio dello iura novit curia. In virtù di tale regola, "il giudice deve considerarsi tenuto ad acquisire la conoscenza delle norme giuridiche applicabili, secondo il diritto vigente, alla fattispecie concreta senza alcun vincolo o limitazione di sorta promanante dalle affermazioni e indicazioni di parte" (efficace definizione tratta da Cristina Faone, "L’inflazione normativa: un eventuale limite alla regola iura novit curia", di ).

Ne consegue che, fermi gli obblighi deontologici di lealtà che gravano sul difensore, il tema di indagine relativo alla vigenza di una disposizione può essere indicato dalle parti in qualsiasi momento. Si tratta di  una valutazione che il giudice potrebbe e anzi dovrebbe svolgere d'ufficio. Già in passato, il Consiglio di Stato è stato criticato dalla dottrina per aver dato interpretazione riduttive di tale principio. Ma, nel caso oggi in esame, si va ben oltre l'interpretazione riduttiva. Qui vi è una aperta, totale svalutazione dello iura novit curia, rispetto alla quale il Consiglio neppure ha offerto una motivazione.

Il giudice amministrativo ha quindi confermato la legittimità della sanzione irrogata sulla base della citata norma. Norma che però, come già ho argomentato, come è stato annualmente confermato dal Parlamento in sede di Milleproroghe e come reiterato più volte dal Governo durante l'ultimo anno, non è in vigore!

venerdì 17 giugno 2016

Assassinio di Jo Kox: il terrorismo nazionalista torna a insanguinare l'Europa.

"Deputata inglese pro UE uccisa da un pazzo": questo è il sottotitolo che accompagna l'articolo, a firma della redazione, comparso su Il Giornale di stamattina. Il contenuto, meno osceno di quanto il titolo potesse far presagire, denota però la scelta, assai significativa, di non utilizzare il termine terrorismo. Non solo in una parte della stampa conservatrice, ma in molti dei contributi che si possono leggere online, e soprattutto negli status condivisi e nei commenti pubblicati, emerge la malcelata volontà di eliminare la dimensione politica del crimine, riducendo il tutto alle supposte cause patologiche dell'azione. 

Non che si tratti di un fenomeno nuovo: questo genere di banalizzazione si è già visto, da parte di commentatori di opposti schieramenti, in occasione di gravissime azioni di terrorismo degli ultimi anni, da Utoya, a Tolosa, a Orlando. Queste letture riduttive non sono però accettabili.

Prima di tutto, è il concetto di pazzia a essere problematico. Come si può constatare frequentando le aule penali, è tutt'altro che semplice tracciare il discrimine tra comportamenti "devianti" di origine patologica e non. Ciò per il semplice fatto che la "normalità" mentale non è una caratteristica tangibile e osservabile dell'essere umano, ma è un modello, costruito sulla base di quel poco che sappiamo del cervello umano e, soprattutto, sulla base di un accertamento epidemiologico/statistico, ossia sul modo in cui si sviluppano i processi mentali nella maggior parte degli esseri umani. Anche se ancorato quanto più possibile a criteri scientifici, l'accertamento della natura patologica di un pensiero presenta quindi dei significativi profili di discrezionalità.

Ma, ancor più importante è rendersi conto che l'esistenza di una qualche forma di disagio psichico in capo agli assassini non influisce comunque sulla natura eventualmente politica degli atti criminali posti in essere. Questo perché le vittime sono state scelte sulla base di considerazioni politiche. La situazione non è assolutamente paragonabile a quella di un soggetto come Kabobo che, in preda a un raptus omicida, attacca i passanti. In tutti i casi citati, invece, le vittime sono state scelte per la loro appartenenza a un gruppo considerato nemico della propria identità o, nel caso della deputata Jo Kox, specificamente per determinate posizioni politiche dalla stessa sostenute.

Se fosse necessario argomentare ulteriormente sulla politicità dell'assassinio, si potrebbero pure richiamare quelle innumerevoli esternazioni che, magari pur condannando espressamente l'omicidio, ne cercavano una spiegazione - se non una vera e propria giustificazione- nelle scelte politiche di cui la Kox si era fatta portavoce. Scelte che vengono quotidianamente additate da alcuni come una minaccia di ampia portata al benessere, se non alla stessa sopravvivenza, del "popolo", della "gente comune" o delle "nazioni europee". Queste esternazioni dimostrano che l'atto del singolo, anche laddove considerato estremo e quindi non appoggiato, viene pienamente compreso nella sua dimensione politica da quella parte delle nostre nazioni che avversa le attuali politiche migratorie e comunitarie.

Anche in assenza di organizzazioni terroristiche strutturate, quanti lupi solitari potremmo avere nei prossimi anni? Si profila l'emergere, nei paesi europei, di una minaccia terroristica di stampo nazionalista radicale. Per prevenirla, non sarà sufficiente la messa in opera di strumenti legali e culturali. Infatti, in assenza di un'evoluzione verso una più profonda integrazione europea, si sta assistendo a una disgregazione degli interessi già messi in comune, destinati a essere sostituiti da una più forte competizione commerciale e dalla lotta per l'espansione dei mercati "nazionali" dei singoli paesi europei. Insomma quelle condizioni strutturali che furono identificate, nel secondo dopoguerra, come il fattore economico principale che aveva determinato le due guerre mondiali.

Sarebbe ora di ricordarci che, prima che per considerazioni economiche, e prima che per costituire un baluardo coeso contro l'espansione sovietica, l'integrazione europea fu concepita come un sigillo, nel quale imprigionare i demoni che, per due volte nel corso di un secolo, avevano incendiato il mondo.

venerdì 13 maggio 2016

Uber POP: esercizio abusivo di servizi di trasporto non di linea? Si pronuncia la Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano.

Vista la perdurante attualità dell'argomento, ripubblico qui la seguente analisi, già a suo tempo pubblicata sul blog personale del Deputato Ivan Catalano. Blogger non consente di apporre note, che sono state quindi provvisoriamente inserite nel corpo del testo, in blu e tra parentesi graffe.

Il 25 maggio 2015, la Sezione specializzata in materia d’impresa del Tribunale di Milano, in persona del giudice Dott. Claudio Marangoni, si è pronunciata all’esito di un giudizio cautelare ante causam instaurato da diverse associazioni, operatori e consorzi di taxi contro diverse società parte della compagine Uber. Oggetto del contendere é l’applicazione (“app”) informatica Uber POP, un programma scaricabile e accessibile da tutti i dispositivi mobili, collegato a una piattaforma telematica. Tale applicazione svolge un servizio di intermediazione, mettendo in contatto la domanda e l'offerta di trasporto privato. A differenza dell'ordinario servizio Uber, gli autisti non sono però dei professionisti, ma dei privati. Anche i veicoli, anziché essere le lussuose auto scure, caratteristiche del servizio classico, sono spesso comuni utilitarie. Secondo i ricorrenti, il servizio denominato “Uber POP”, consentendo a comuni cittadini, privi di autorizzazione o licenza, di porre in essere servizi di trasporto a pagamento, costituirebbe una forma di concorrenza sleale nei confronti dei tassisti italiani. Pertanto, essi hanno chiesto al Tribunale di inibire in via cautelare a Uber la prosecuzione della citata attività.

Al fine di verificare l’eventuale sussistenza dell’illecito concorrenziale, il giudice ha preliminarmente richiamato la normativa applicabile, ossia la Legge n. 21/1992 e gli articoli 82 e 86 del Codice della Strada. Ha quindi statuito che l’assetto normativo esistente, fondato sulla limitazione, tramite licenze, dell’accesso al mercato e su un regime amministrato di turnazione e tariffe, non contrasta con i principi di concorrenza costituzionali e comunitari. Il giudice ha evidenziato, in particolare, che la libera prestazione di servizi, nel campo dei trasporti, non è disciplinata dall’art. 56 del TFUE, bensì dal Titolo VI della terza parte del Trattato FUE, come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia nella propria sentenza del 22 dicembre 2010, Yellow Cab Verkehrsbetrieb, C-338/09. Ha osservato, tuttavia, che le attività di taxi e ncc sono escluse dall’ambito di applicazione delle disposizioni finalizzate a liberalizzare i servizi di trasporto, adottate sul fondamento dell’articolo 91 del citato Titolo VI. In tal senso, viene indicato nell’ordinanza il chiaro disposto dell’art. 6 D.lgs 59/2010, di recepimento della direttiva 123/2006. Neppure, secondo il Tribunale, potrebbe sussistere una violazione della direttiva da parte del diritto interno, violazione comunque non prospettata dalle parti resistenti [il considerando n. 21 della direttiva 123/2006, non citato dal Tribunale, assevera che “i servizi di trasporto, compresi i trasporti urbani, i taxi e le ambulanze nonché i servizi portuali, sono esclusi dal campo di applicazione della presente direttiva”].

Operate le suddette premesse normative e giurisprudenziali, il Tribunale ha proceduto a valutare gli specifici requisiti richiesti per l’esercizio dell’azione di accertamento dell’illecito concorrenziale. Il primo requisito attiene all’esistenza di un rapporto di concorrenza, e quindi di interferenza, tra i servizi posti in essere rispettivamente dalle parti ricorrenti e resistenti. Il giudice ha riconosciuto la sussistenza di tale requisito, valorizzando in particolare, al punto 3, le analogie tra la richiesta di trasporto proposta mediante l’applicazione Uber POP e quella che passa attraverso i servizi di Radio Taxi, da anni diffuse in tutte le città. Il secondo requisito valutato dal giudice attiene alla remunerazione del servizio fornito dall’autista contattato tramite Uber POP. La strategia difensiva dei resistenti puntava a qualificare come mero rimborso spese quanto pagato dall’utente al fornitore del servizio di trasporto. Il Tribunale ha, però, rigettato tale prospettazione. Al contrario di quanto sostenuto da Uber, l’autista riceverebbe, infatti, una vera e propria remunerazione. Dirimente, in tal senso, sarebbe l’esistenza di un algoritmo noto come “surge”, il quale “determina un aumento dei prezzi in connessione di un prevedibile aumento della domanda”. Tale meccanismo risulta quindi, per sua natura, del tutto slegato dai costi effettivamente sostenuti dall’autista.

Nel prosieguo, il Tribunale si concentra sulla possibilità di assimilare Uber POP al servizio taxi. Al fine di negare tale natura al servizio da essi offerto, i resistenti hanno sostenuto che il sistema darebbe vita a una community chiusa, limitata ai passeggeri e ai guidatori aventi installato l’applicazione. Conseguentemente, il relativo trasporto dovrebbe considerarsi privato. Il Tribunale, nel rigettare tale tesi, ha osservato che il servizio è svolto, a pagamento, nell’interesse di persone diverse dall’intestatario della carta di circolazione, e che la sussistenza di una community non consente, a legislazione vigente, di esercitare in forma privata, senza titolo autorizzativo, una tale attività. Nel medesimo senso, il Tribunale ha ritenuto che l’offerta del servizio sia sostanzialmente indifferenziata, potendone usufruire chiunque previo scaricamento di una app liberamente disponibile, e non sia quindi circoscritta a uno specifico pubblico.

La successiva questione affrontata dal Tribunale è strettamente legata a quella della qualificazione da dare alla somma ricevuta dall’autista. Le società resistenti sostenevano che tale somma fosse un mero rimborso spese, così da far rientrare il servizio Uber POP all’interno della categoria, di non ancora precisa definizione normativa, del car pooling. A tal proposito occorre precisare che il Tribunale, per definire il servizio reso dall’autista che, avendo un “percorso personale da svolgere (...) chieda a terzi di condividere tale percorso al fine di dividere le relative spese”, utilizza i termini car sharing e ride sharing. Il primo dei due termini è qui citato in senso molto generico, in quanto esso identifica, propriamente, una forma particolare di noleggio del veicolo a tempo. L’ambito del secondo termine è invece sostanzialmente equivalente a quello di car pooling [BlaBlaCar, tra i più noti portali di condivisione di veicoli, distingue però il car pooling dal ride sharing a seconda della lunghezza - rispettivamente corta o lunga - del tragitto, nonché della sua abitualità o saltuarietà]. Al di là della questione terminologica, il giudice esclude espressamente la riconducibilità di Uber POP a tali forme di mobilità condivisa, in quanto l’autista non ha un interesse proprio a raggiungere il luogo indicato dall’utente e “in assenza di alcuna richiesta, non darebbe luogo a tale spostamento”.

A questo punto della motivazione, il Tribunale ha affrontato una delle questioni più complesse del caso. Il fatto che il singolo autista, svolgendo il servizio senza licenza, ponga in essere una condotta vietata, non comporta, infatti, di per sè una responsabilità per concorrenza sleale del fornitore di un servizio di intermediazione. Il Tribunale, tuttavia, ha osservato che le società resistenti sono di fatto responsabili di aver generato il fenomeno, consentendo un incremento esponenziale del perimetro di attività, della clientela e del numero dei soggetti privi di licenza svolgenti servizi di trasporto analoghi a quello taxi. I gestori dell’applicazione, inoltre, promuovono attivamente e consapevolmente il reclutamento di conducenti tra i soggetti privi di licenza, provvedendo altresì a gestire il pagamento, fissare le tariffe e le variazioni delle stesse. In virtù di tali attività il ruolo di Uber nella vicenda supererebbe ampiamente quello di mero intermediario, coinvolgendo invece “aspetti direttamente organizzativi e propulsivi” del servizio. Tanto che il giudice si è spinto a interrogarsi sul possibile inquadramento quali “vettori”, ai sensi degli articoli articoli 1678 e 1681 c.c., dei responsabili dell’applicazione.

Così ricollegata l’attività delle società resistenti a quella del singolo autista senza licenza, il Tribunale ha ritenuto integrato l’illecito concorrenziale ex art. 2598, comma 3, c.c.. Come specificato dal giudice, che ha richiamato la giurisprudenza della Cassazione sul punto [v. sentenza Cass. Civ. 27 aprile 2004 n. 8012, in Foro. it., Rep., 2005, voce Concorrenza, n. 264], la violazione di norme pubblicistiche non integra necessariamente un atto di concorrenza sleale. Si verifica però un illecito concorrenziale qualora tale violazione determini, come nel caso di specie, un vantaggio concorrenziale rispetto agli altri operatori. Il Tribunale ha individuato tale vantaggio concorrenziale nella possibilità per gli autisti Uber POP di applicare tariffe più basse di quelle dei taxi, in ragione dei minori costi che deve sopportare un operatore sprovvisto di licenza. Ne consegue un indebito sviamento di clientela. Fra i maggiori costi di cui sopra, vengono in particolare enumerati quelli conseguenti all’univoca destinazione all’uso di terzi del veicolo, all’obbligo di installare il tassametro, alla maggior onerosità delle assicurazioni per uso professionale rispetto a quelle per uso proprio. Infine, vengono ricompresi i costi di associazione a servizi che garantiscano potenzialità di contatto con la clientela analoghe a quelle proprie dell’app Uber POP e all’installazione dei relativi apparati. Non viene invece considerato il prezzo di acquisto delle licenze. Tale esclusione appare corretta, considerato che le licenze vengono rilasciate dall’Amministrazione gratuitamente e che la loro compravendita è un fenomeno che si sviluppa esclusivamente su un mercato secondario. Ulteriore profilo di concorrenza sleale discenderebbe dal mancato rispetto degli obblighi di servizio pubblico incombenti sui tassisti.

Come evidenziato all’inizio della presente nota, l’ordinanza ha contenuto cautelare. L’accoglimento delle domande azionate dalle ricorrenti è quindi subordinato alla sussistenza del duplice requisito del fumus boni iuris e del periculum in mora. Quanto fin qui esposto integra, ad avviso del Tribunale, il requisito del fumus boni iuris Quanto alla sussitenza del periculum il Tribunale lo ha individuato nella progressiva e veloce diffusione dei servizi di Uber POP, che determina col passare del tempo un significativo incremento del pregiudizio per i ricorrenti. Tale pregiudizio risulterebbe tanto più attuale in considerazione dell’aumento dei flussi turistici in entrata, conseguente a EXPO 2015.

Per queste ragioni, il Tribunale, accertata la concorrenza sleale posta in essere, ex art. 2598, comma 3, c.c., dalle parti resistenti ha inibito alle stesse l’utilizzazione dell’app Uber POP sul territorio italiano e, più in generale, la prestazione di un servizio, comunque denominato, tale da organizzare e promuovere la prestazione di servizi di trasporto a pagamento, su itinerari e secondo orari di volta in volta stabiliti, da parte di soggetti privi di licenza o autorizzazione. Il Tribunale ha poi previsto una penale di Euro 20.000,00 per ogni giorno di ritardo nell’attuazione dell’inibitoria, a partire dal quindicesimo giorno successivo alla comunicazione dell’Ordinanza. Infine, è stata disposta la pubblicazione del dispositivo, per trenta giorni, sulla home page italiana del sito www.uber.com. Così esposti i contenuti più rilevanti del provvedimento - tralasciate, inter alia, alcune questioni soggettive e di legittimazione, qui di non primario interesse - si può tracciare una valutazione. Nel complesso, la decisione del Tribunale delle Imprese di Milano risulta completa e solidamente argomentata. Il giudice, nell’applicare a un fenomeno nuovo e dirompente, quale Uber POP, la normativa esistente, ha mostrato una conoscenza non superficiale del tema della mobilità condivisa. Inoltre, la decisione appare fondata su una puntuale disamina dei più rilevanti elementi di fatto. Si pensi, in particolare, all’indagine sull’algoritmo di pricing ai fini della qualificazione come retribuzione della somma percepita dall’autista. 

Ciò premesso, si possono formulare due osservazioni critiche. Prima di tutto, il Tribunale, nel rigettare la tesi secondo la quale Uber costituirebbe una forma di ride sharing/car pooling, si è basato sull’assenza, in capo all’autista, di un interesse proprio a recarsi presso la destinazione del viaggio. L’osservazione è, in parte, corretta, ma necessita di una precisazione, invero non dirimente per il caso esaminato dal Tribunale. Certamente, laddove difetti totalmente un interesse proprio dell’autista a compiere il viaggio, non vi è car pooling. D’altra parte, non è infrequente che diversi individui condividano un veicolo per compiere un tragitto solo in parte coincidente. In tal caso è possibile che l’autista allunghi il proprio percorso al fine di caricare o scaricare uno dei propri compagni di viaggio. Rispetto a questa parte del tragitto, l’autista non ha un interesse proprio, se non quello di consentire una maggiore occupazione del veicolo e quindi una più ampia suddivisione dei costi. Dovremmo forse negare, in queste situazioni, la possibilità di operare trasporti in car pooling? La risposta non può che essere negativa. Una tale opzione interpretativa avrebbe, infatti, conseguenze sociali contrarie all’interesse pubblico, che è quello di aumentare l’occupazione dei veicoli per decongestionare le strade. Che questa sia la direzione verso la quale si stanno indirizzando i pubblici poteri è confermato dalla diffusione in Europa, negli ultimi anni, di norme e iniziative favorevoli al car pooling [si veda ad esempio, per quanto riguarda l’Italia, l’art. 4 del Decreto 27 marzo 1998 del Ministero dell’Ambiente, in materia di “Mobilità sostenibile nelle aree urbane”]. La promozione di questa modalità di trasporto condivisa è infatti funzionale al raggiungimento degli obbiettivi di Europa 2020. Indubbiamente, il criterio dell’esistenza di un interesse proprio può essere preso in considerazione per valutare se un trasporto sia qualificabile come car pooling. Esso deve essere però riferito non alla destinazione concordata, ma al tragitto complessivamente considerato. Inoltre, deve ammettersi che il conducente possa compiere una parte del tragitto nell’esclusivo interesse altrui. Il discrimine andrebbe allora cercato nella prevalenza o meno dell’interesse proprio sull’interesse esclusivamente altrui. E’ comunque possibile, e forse preferibile, distinguere il car pooling sulla base di un diverso criterio. Il Tribunale ha accertato, in distinti punti della motivazione, che l’autista di Uber POP riceve una remunerazione (e non un mero rimborso spese) e che il relativo servizio non è assimilabile al car pooling, senza far espressamente discendere il secondo accertamento dal primo. La Corte di Cassazione francese, invece, ha valorizzato proprio la natura della somma corrisposta al conducente per distinguere il car pooling dall’abusiva fornitura di servizi di trasporto [v. Cour de Cassation, Chambre Commerciale, Arrêt n. 11-21980 du 12/03/2013]. In particolare, secondo la suprema Corte transalpina, la somma corrisposta all'autista non può essere maggiore della quota, riferibile agli altri passeggeri, dei costi sostenuti, comprensivi, tra l'altro, delle spese di benzina, dei pedaggi, dell'assicurazione e dell'usura del mezzo.

Infine, per quanto riguarda il dispositivo dell’ordinanza del Tribunale di Milano, è opportuna una precisazione circa l’inibitoria dell’uso sul territorio nazionale dell’app Uber POP. La statuizione, se interpretata letteralmente, pare precludere in via assoluta la continuazione dell’uso dell’applicazione. Trattandosi però di un applicativo telematico, le società resistenti potrebbero modificarne, senza particolari difficoltà, l’algoritmo al fine di renderlo compatibile con i limiti del car pooling. Non vi sarebbe, in tal caso, ragione di precludere alle stesse la possibilità di continuare a usare, per tale nuovo servizio conforme a normativa, il preesistente nome di Uber POP.

Sicuramente, la vicenda non è ancora arrivata alla sua fine. Uber pare intenzionata a procedere nella battaglia legale e, parallelamente, in quella politica, mirante alla modifica della normativa che regola il settore dei servizi di trasporto pubblico non di linea (taxi e ncc) [Legge 17 gennaio 1992, n. 21]. Non vi è dubbio che quest’ultima mostri crescenti profili di obsolescenza, con norme che non tengono il passo rispetto alle evoluzioni tecnologiche diffusesi negli ultimi vent’anni. Inoltre, manca ancora nell’ordinamento una definizione normativa di car pooling, attualmente rimessa agli interpreti. Per Uber, risulta probabilmente opportuno concentrarsi sull’attività di lobbying in sede legislativa, anche al fine di sostenere una maggior liberalizzazione del settore. Al contrario, le possibilità di ottenere una vittoria nella sede giurisdizionale di merito risultano, alla luce della legislazione vigente, piuttosto esigue.

venerdì 25 marzo 2016

Diem25: il progetto di Varoufakis per... l'integrazione europea?

Ieri sera ho partecipato all'incontro organizzato dal Democracy in Europe Movement 2025 - Diem25 presso l'acquario di Roma, un progetto promosso dall'ex ministro degli esteri ellenico Yanis Varoufakis. L'obbiettivo di Diem25, come esposto dal suo promotore, non sarebbe quello di formare una nuova confederazione di partiti di sinistra in Europa, né di creare nuovi partiti nazionali, ma di sviluppare, nella società civile, una piattaforma politica di sostegno alla democratizzazione dell'Europa. "The European Union will democratize or it will disintegrate": questo è il messaggio centrale di Varoufakis, più volte ripetuto durante la serata.

Ma cosa intende Diem25 con "democratizzazione dell'Europa"? Il concetto pare decisamente più ambizioso di come è stato riduttivamente interpretato da una parte dell'auditorio.

Come si legge nella versione estesa del Manifesto per democratizzare l'Europa (qui in lingua originale), "gli europei hanno il diritto di esaminare l’avvenire dell Unione, e il dovere di trasformare l’ Europa (all’orizzonte 2025) in democrazia piena e intera, dotata di un Parlamento sovrano che rispetta l’autodeterminazione nazionale e condivide il potere con i parlamenti nazionali, i consigli regionali, i consigli comunali". Per questo, nel termine dei prossimi due anni, il movimento si prefigge l'obbiettivo di convocare "un’assemblea costituente composta da rappresentanti eletti nelle liste transnazionali" che "avrà il potere di decisione su una futura costituzione democratica".

Da queste poche righe, si può cogliere non solo l'anelito europeista del progetto, già ricavabile nelle premesse del testo, ma anche una visione di stampo effettivamente federale della futura Europa. Si parla infatti di un Europa costruita su vari livelli di governo, nella quale anche il livello più alto gode di piena legittimazione democratica. Il progetto accoglie con forza i principi di sussidiarietà verticale, di prossimità e di decentramento, con un'espressa valorizzazione dei livelli substatali. L'interpretazione del Manifesto alla luce del principio di sussidiarietà consente poi di risolvere l'apparente contraddittorietà insita nell'obbiettivo che il movimento si è posto per i prossimi 12 mesi. Esso consiste infatti nell'"europeizzare le quattro questioni" rispetto alle quali i governi nazionali non hanno modo oggi di agire, ossia debito pubblico, banche, insufficienza di investimenti, flussi migratori e aumento della povertà, limitando nel contempo "le prerogative arbitrarie di Bruxelles e rendendo il potere ai parlamentari nazionali, ai consigli regionali, ed ai comuni".

Da una parte, Diem25 prefigura un assemblea costituente e un legislatore europeo pienamente rappresentativo, il che implica il venir meno - o quantomeno la forte limitazione - del persistente potere dei governi nazionali nell'emanazione degli atti dell'Unione. Dall'altra parte, con una scelta probabilmente non casuale, il Manifesto non utilizza, neppure una volta, i termini federazione e federale. Verosimilmente, tali termini sono al momento invisi a una parte del popolo cui si rivolge Varoufakis - cosa che ho potuto constatare personalmente a margine dell'incontro. E, altrettanto verosimilmente, la futura natura federale, confederale, o di altro tipo dell'Unione rappresenta una scelta che Diem25 desidera demandare alla prevista assemblea costituente.

In conclusione, sono rimasto positivamente colpito dall'incontro con Diem25. Da un lato, l'incontro di Roma per alcuni aspetti e temi sembrava una tipica assemblea internazionale dell'area della sinistra parlamentare, dall'altra ha saputo portare all'attenzione di tale area una posizione innovativa sull'Europa. Da troppo tempo, ormai, una parte della sinistra politica sembra orientarsi verso una chiusura nazionale, se non proprio nazionalistica. Ciò avviene contestualmente all'insinuarsi nell'orizzonte della sinistra italiana (e non solo) di personaggi e tesi di stampo marcatamente comunitarista, sovranista o euroasiatista. Il progetto di Varoufakis indica la direzione opposta. Devo ammettere che non ero riuscito a cogliere questo aspetto del politico greco durante il suo mandato come Ministro dell'Economia. Il fatto che alcuni temi diventino oggetto di dibattito al di fuori del ristretto ambito della élite liberal-europeista è uno sviluppo significativo, che potrebbe consentire un dibattito più ampio e ricco sul futuro dell'integrazione del continente.

lunedì 14 marzo 2016

Legittima difesa: una modifica necessaria?

L'aula della Camera si appresta a votare una proposta di Legge (C. 2892) in materia di legittima difesa, presentata da alcuni deputati del Gruppo della Lega Nord, che hanno però ritirato nel frattempo la propria firma, ritenendo insoddisfacente la riformulazione del testo operata in Commissione Giustizia. Il deputato Catalano mi ha chiesto di illustrargli sinteticamente la questione, anche al fine di confrontarci sull'opportunità di una tale modifica normativa. Preliminarmente, è opportuno descrivere l'istituto della legittima difesa.

La legittima difesa, prevista dall'art. 52 codice penale, è una causa di giustificazione. Si intende, con tale termine,  una situazione in presenza della quale l'agente, pur realizzando un fatto astrattamente individuato come reato da una norma incriminatrice, non viene punito, in quanto il suo comportamento è considerato giuridicamente lecito. Per quanto di nostro interesse, l'agente non risponde dell'omicidio o delle lesioni provocate al suo aggressore, in presenza dei requisiti della legittima difesa indicati dall'art. 52, comma 1, c.p.. Tali requisiti consistono nella necessità di difendere un diritto, anche altrui, nel pericolo attuale di un offesa ingiusta, e nella proporzione tra quest'ultima e la difesa.

Da tempo la giurisprudenza ha chiarito che tale ultimo requisito, che spesso viene valutato congiuntamente a quello della necessità, deve guardarsi alla luce dei beni giuridici rispettivamente messi in pericolo o danneggiati da offesa e difesa. Non è richiesta una perfetta equivalenza, potendo l'azione difensiva anche travalicare la misura di quella offensiva. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si ritiene non proporzionata la difesa che vada a colpire beni giuridici eterogenei e di rango maggiore rispetto a quello messo in pericolo o offeso dall'aggressore. Per esempio, non è proporzionato l'omicidio determinato dalla necessità di tutelare il solo patrimonio (v. Cass. n. 45407/2004). Neppure è proporzionata la lesione dell'incolumità personale, a fronte di un'offesa solo verbale (v. Cass. n. 2121/1985). Comunque, è necessaria una valutazione caso per caso, operata ex ante, sulla base della gerarchia tra i beni giuridici ricavabile dalla Costituzione.

Se l'agente travalica i limiti della legittima difesa, compreso quello della proporzione, deve rispondere, a seconda dei casi, per il reato doloso o colposo (in quest'ultimo caso si parla di eccesso colposo, previsto dall'art. 55 c.p.) corrispondente al fatto tipico posto in essere. Ai sensi dell'art. 59, comma 4, c.p., risponde poi del reato colposo l'agente che per errore determinato da colpa, ritiene esistente una causa di giustificazione invece inesistente (c.d. scriminante putativa).

Già nel corso della XIV° legislatura, con la Legge 13 febbraio 2006, il legislatore è intervenuto a modificare l'istituto, prevedendo un particolare regime per la legittima difesa domiciliare (art. 52, comma 2, c.p.), applicabile nei casi di violazione di domicilio. In tali casi, la difesa è sempre considerata proporzionata, se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi rientranti nel concetto di domicilio  di cui all'art. 614 c.p."usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione".

Si tratterebbe, come confermato da recente giurisprudenza (v. Cass. n. 28802/2014), di un'ipotesi speciale di legittima difesa e non di una nuova, autonoma, causa di giustificazione. La particolarità consiste nell'esistenza di una presunzione assoluta di proporzionalità tra offesa e difesaD'altra parte, questa previsione è a ben vedere temperata dai requisiti, cumulativi di cui alle lettere a) e b) dell'articolo 52, comma 2 c.p.. Anche nel secondo caso, a ben vedere, la difesa non è limitata al solo patrimonio, poiché deve esserci un pericolo di aggressione, e quindi una minaccia all'incolumità personale. In tal senso, la Suprema Corte, con sentenza Cass. n. 12466/2007, ha affermato che, anche dopo le modifiche del 2006, "la legittima difesa domiciliare non consente un’indiscriminata reazione nei confronti del soggetto che si introduca fraudolentemente nella propria dimora, ma presuppone un attacco, nell’ambiente domestico, alla propria o altrui incolumità, o quanto meno un pericolo di aggressione".

Per alcune forze politiche, e in particolare per la Lega Nord, già promotrice della modifica del 2006, l'attuale struttura della scriminante risulta troppo restrittiva, poiché non rende legittimo ledere, o addirittura uccidere, un intruso nella propria dimora. Per questo, si è arrivati a un ulteriore tentativo di riforma. Se fossero state approvate le modifiche all'art. 52 c.p. proposte dal Senatore Molteni, si presumerebbe la legittima difesa in capo a colui "che compie un atto per respingere l'ingresso, mediante effrazione o contro la volontà del proprietario, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di persona travisata o di più persone riunite, in un'abitazione privata, o in ogni altro luogo ove sia esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale". I termini usati consentono di qualificare la presunzione come relativa (ossia salvo prova contraria), anche perché, diversamente opinando, la norma diventerebbe di dubbia compatibilità costituzionale, oltre che pericolosa da un punto di vista pratico. Ci si potrebbe poi interrogare se la "violenza o minaccia dell'uso di armi da parte di persona travisata o di più persone riunite" si riferisca, come sembrerebbe, anche al caso di effrazione.

Ciò premesso, non si comprende bene in cosa andrebbe a cambiare l'assetto della legittima difesa. Infatti, già secondo la legislazione vigente, in caso di dubbio circa l'esistenza di una causa di giustificazione, il giudice deve assolvere l'imputato, ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 3. Con tale norma il legislatore ha codificato, anche in riferimento alle cause di giustificazione, l'ordinaria regola in tema di presunzione di non colpevolezza dell'imputato, al fine di superare un orientamento giurisprudenziale di senso contrario, sviluppatosi nella vigenza del precedente codice di procedura penale. Per cui, già oggi, in caso di dubbio, la legittima difesa si presume sussistente salvo prova contraria. E quindi, l'onere della prova già incombe sull'accusa.  A cosa serve allora la proposta Molteni? Sembrerebbe a nulla (giuridicamente, si intende, al netto di ogni possibile uso politico), se non ad appesantire ulteriormente l'art. 52 c.p..

Il testo però, come premesso, è stato radicalmente mutato dalla Commissione Giustizia. La nuova formulazione andrebbe a toccare non più l'art. 52 c.p., ma l'art. 59 c.p., in materia di legittima difesa putativa, prevedendosi che "la colpa dell'agente è sempre esclusa se l'errore riferito alla situazione di pericolo e ai limiti imposti è conseguenza di un grave turbamento psichico ed è causato, volontariamente o colposamente, dalla persona contro cui è diretto il fatto". A differenza che nel testo originale, vi è una presunzione, assoluta e quindi insuscettibile di prova contraria, di assenza di colpa in capo all'agente, al ricorrere di alcuni presupposti. La Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, nel proprio parere sulla proposta, ha evidenziato l'opportunità di "chiarire meglio il riferimento ai «limiti imposti» contenuto nel testo alla luce dei princìpi costituzionali di tassatività e determinatezza della fattispecie". Condivido tale osservazione, anche se sono altri i profili che più mi rendono perplesso.

Come si è visto, la presunzione opererebbe in presenza di un errore, conseguente a un grave turbamento psichico, a sua volta causato per dolo o colpa dalla persona contro cui è diretta la difesa. Per cui i giudici dovrebbero accertare prima di tutto l'esistenza di un grave turbamento psichico in capo all'agente nel momento del fatto. In caso di esito positivo, dovrebbero accertare un doppio nesso causale: quello tra l'offesa dell'intruso e il turbamento, e quello tra quest'ultimo e la difesa "eccessiva" posta in essere dall'offeso. E' significativo che nessuno di questi elementi sia suscettibile di essere accertato materialmente e oggettivamente, in quanto essi riguardano uno stato psichico. Lo stesso concetto di "grave turbamento psichico" appare poi di assai incerta delimitazione, e rischia di tradursi in una nuova fonte di arbitrio giurisprudenziale. Per diversi anni, fino a che non si disporrà di una ampia casistica a livello di giurisprudenza di legittimità, si assisterà ad applicazioni difformi della norma. E quando poi, finalmente, il sistema sarà riuscito ad assimilare il nuovo concetto, interverrà magari di nuovo il legislatore, per le proprie finalità politiche, facendo ricadere il sistema nel'incertezza!

Tra l'altro è più che lecito dubitare della portata innovativa delle nuova norma in relazione ai suoi effetti concreti. Abbiamo già osservato che l'accertamento dei presupposti della presunzione assoluta di assenza di colpa non si fonda su elementi di particolare solidità oggettiva. Verosimilmente, i giudici, nel valutarli, finiranno per ritenerli sussistenti in quei casi nei quali, già oggi, ritengono che l'errore in cui è caduto l'agente sia incolpevole. Al contrario, in presenza di un errore che essi - secondo l'attuale normativa - giudicano colpevole, potranno agevolmente ritenere inesistente, o quantomeno non sufficientemente grave, il turbamento psichico dell'agente, ovvero negare uno dei nessi causali (verosimilmente quello tra lo stato psichico e l'azione difensiva) sulla base di massime di esperienza.

In conclusione il mio giudizio sulla proposta, in entrambe le formulazioni, è tendenzialmente negativo. Le continue riforme sono assai deleterie per il diritto penale. Ciò è tanto più vero quanto più esse sono disorganiche, quanto più, anziché ridefinire le regole fondamentali, esse introducono eccezioni ed eccezioni all'eccezione. Ciò è tanto più vero, infine, quanto più le continue interpolazioni sono ravvicinate nel tempo: il diritto vive nella sua applicazione, e necessita di tempo per sedimentarsi e consolidarsi. Visto che, nella pratica, le modifiche saranno pure prive di effetti significativi, il costo (nei termini anzidetti) dell'intervento risulta ingiustificato.

Al solito, vi invito a farmi avere la vostra diversa opinione (motivata) e rimango sempre pronto, nel caso, a farla mia. Solo gli stupidi non cambiano mai idea.

giovedì 3 marzo 2016

Attuazione della Direttiva Mutui 2015/07/UE: violazione del divieto di patto commissorio?

Il 21 gennaio scorso il governo ha inviato alla Camera dei Deputati uno schema di decreto legislativo recante, tra l'altro, "attuazione della direttiva 2014/17/UE in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali". A seguito delle gravi polemiche che ne sono seguite, con l'accusa al Governo, da parte dei banchi delle opposizioni, di favorire illecitamente le banche a a scapito dei cittadini mutuatari, l'On. Catalano mi ha chiesto di valutare la compatibilità delle norme in via di introduzione con il diritto interno italiano e, in particolare, con il divieto di patto commissorio. Infatti, secondo il deputato M5S Daniele Pesco, la possibilità concessa alle banche di vendere l'immobile in caso di mancato, o ritardato pagamento superiore ai 30 giorni, delle rate del mutuo immobiliare, per più di sette volte anche non consecutive, finirebbe per violare tale principio.

Per valutare tale asserzione, è opportuno prima di tutto esaminare la norma "incriminata", ossia l'art. 1, comma 2 dello schema di decreto, laddove introduce nel decreto legislativo n. 385/1993 (Testo Unico bancario) un nuovo articolo 120-quinquiesdecies. Il comma 3 di quest'ultimo articolo prevede che: "le parti del contratto possono convenire espressamente, al momento della conclusione del contratto di credito o successivamente, che in caso di inadempimento del consumatore la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l'estinzione del debito, fermo restando il diritto del consumatore all'eccedenza. Il valore del bene immobile oggetto della garanzia è stimato da un perito scelto dalle parti di comune accordo con una perizia successiva all'inadempimento secondo quanto previsto all'articolo 120-duodecies".

Passiamo quindi a esaminare l'art. 2744 codice civile che prescrive la nullità del patto commissorio, ossia il "patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno".

La ratio di tale divieto è stata lungamente discussa sia in dottrina che in giurisprudenza. Tradizionalmente, si sono confrontate tesi che mettono l'accento sulla tutela del debitore, vuoi per impedire una "illecita coercizione" dello stesso, vuoi per prevenire sproporzioni fra l’importo del debito e il valore del bene oggetto della garanzia, e tesi che invece puntano sulla necessità di tutelare la par condicio creditorum, sia per impedire che, al di fuori delle tipiche cause di prelazione previste dal codice civile, un creditore venga privilegiato, sia per prevenire che alcuni beni siano sottratti al patrimonio del debitore per un importo superiore al valore del debito, in pregiudizio ovviamente agli altri creditori. Peraltro, si sono aggiunte negli ultimi anni ulteriori tesi. In particolare, considerato che la tutela opera attraverso la sanzione della nullità, e quindi erga omnes, anziché con strumenti rimessi alla parte concretamente lesa, si è sostenuto che l'interesse protetto non sia individuale, ma pubblico. Tuttavia, anche circa l'individuazione di tale interesse, si confrontano diverse posizioni.L'individuazione della ratio non è una questione teorica o dottrinaria, ma di immediata rilevanza pratica, per delimitare i limiti del divieto.

In particolare, se la ratio fosse quella di tutelare il patrimonio del debitore da un'eccessiva sproporzione fra importo del debito e bene oggetto della garanzia, rimarrebbe escluso dal divieto il patto marciano. Secondo la descrizione offerta dalla Treccani, "il patto marciano è ignoto alla legge positiva, ma gode di una millenaria tradizione dogmatica, risalendo ad una probabile interpolazione giustinianea di un testo del giurista Marciano, che permetteva al creditore insoddisfatto di appropriarsi della cosa ricevuta in garanzia, purché stimata al giusto prezzo («rem iusto pretio tunc aestimandam»: D.20.1.16.9)".

L'art. 120-quinquiesdecies, proprio in virtù della previsione di una perizia successiva sul valore del bene, con restituzione al debitore dell'eccedenza rispetto all'entità del debito, descrive quindi un tipico patto marciano.

La recente giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. 9 maggio 2013, n. 10986) ha preso una posizione inequivoca. Fondando infatti il divieto di patto commissorio sull'esigenza di tutelare patrimonialmente il debitore da indebite sproprorzioni, la Corte ha infatti escluso che il divieto di cui all'art. 2744 operi in riferimento al patto marciano. Ne consegue, per quanto di nostro interesse, che la previsione contenuta nelle previste modifiche al T.U. bancario non costituisce una deroga, né tantomeno una violazione, della norma di cui all'art. 2744 c.c.. Quest'ultima, in ogni caso, non ha rango costituzionale e ben potrebbe venire modificata, limitata o abrogata da un atto avente forza di Legge, tra l'altro attuativa di obblighi che derivano dall'ordinamento comunitario, ex art. 117 cost.

Più in generale, si deve osservare che il divieto di patto commissorio è in via di limitazione. Gli orientamenti recenti ne hanno contenuto la portata, interpretandolo come uno strumento finalizzato a impedire l'ingiustificato arricchimento del creditore a scapito del debitore. Infatti, nei casi in cui una tale situazione non si verifica, i limiti che il divieto pone all'autonomia contrattuale risultano sempre meno giustificabili. Tra l'altro molti altri ordinamenti europei neppure conoscono un tale divieto e le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sul punto, hanno escluso che il divieto sia ascrivibile all'ordine pubblico internazionale  (v. Martino, M., Le Sezioni Unite sui rapporti tra divieto del patto commissorio e ordine pubblico internazionale, in Giur. comm., 2012, II, 693 s.). Ne consegue che eventuali norme straniere, applicabili in Italia secondo le regole di diritto internazionale privato, possono trovare applicazione anche qualora consentano i patti commissori.





mercoledì 17 febbraio 2016

Siria. E gli ospedali, si possono bombardare?

All'inizio di questa settimana, diversi ospedali (nonché due scuole) in Siria sono stati bombardati, cagionando oltre 50 morti e privando un considerevole bacino di popolazione dell'accesso a strutture sanitarie. Gli attacchi sono avvenuti sullo sfondo di una grande offensiva della coalizione pro-Assad, che grazie al determinante sostegno e al supporto aereo della Russia sta volgendo a suo favore le sorti della guerra. L'offensiva, al momento, non è primariamente diretta contro lo Stato Islamico, ma contro il territorio controllato dai ribelli non-Isis, sostenuti dagli stati sunniti e, assai più blandamente, da Francia e Stati Uniti.

Le forze lealiste cingono ora d'assedio Aleppo, un tempo la più popolosa città della Siria, centro della rivoluzione e tuttora principale centro urbano controllato dai ribelli. Con l'avanzata delle forze di Assad, decine di migliaia di civili stanno fuggendo verso il confine turco.

I bombardamenti contro strutture civili sono avvenuti in prossimità o all'interno dei centri urbani di Aleppo e Idlib, in zone a controllo ribelle di FSA e alleati. La Russia e il governo di Assad, indicati da alcune ONG come probabili esecutori degli attacchi, hanno finora negato il proprio coinvolgimento, bollandolo come un operazione di propaganda ostile. La Russia, per bocca del vice ministro degli Esteri Gennadi Gatilov, ha comunque comunicato che "i bombardamenti su obiettivi dei gruppi terroristici continueranno in ogni caso, anche se si arriverà a un accordo per il cessate il fuoco in Siria" e che "il cessate il fuoco riguarderà coloro che sono davvero interessati all'avvio del processo di dialogo e non i terroristi",

Dall'inizio della guerra in Siria, Amnesty International ha contato 336 attacchi contro centri medici, attribuibili per la maggior parte alle forze che sostengono il Presidente Assad. Questi attacchi costituiscono crimini di guerra? Come spesso accade nel campo del diritto internazionale umanitario, sono sconsigliabili giudizi affrettati. Non basta infatti accertare che un attacco, che ha comportato vittime civili, sia attribuibile a una delle parti. E' necessario dimostrare o che tale attacco fosse diretto a colpire un obbiettivo di carattere unicamente civile o che l'attacco, pur essendo diretto contro un obbiettivo militare, fosse sproporzionato. 

Nel primo caso, ci troveremmo di fronte a una manifesta violazione del principio di distinzione, oggi ritenuto di natura consuetudinaria, in base al quale è fatto obbligo a ogni belligerante di distinguere tra combattenti e civili, astenendosi dall'attaccare questi ultimi (e, ancor di più, obbiettivi civili qualificati come scuole, ospedali, luoghi di culto). Nel secondo caso, viene invece in luce un corollario del principio sopra esposto: il principio di proporzione. Un attacco, infatti, anche quando abbia mprimariamente ad oggetto un obbiettivo militare, non deve cagionare danni collaterali eccessivi rispetto al vantaggio militare atteso. La valutazione deve essere fatta ex ante, alla luce delle informazioni di cui disponeva l'agente nel momento in cui ha sferrato l'attacco. Rimane problematico definire, nei singoli casi concreti, quando un attacco possa considerarsi proporzionato o meno, con il rischio di applicazioni differenziate del principio; morbide per gli amici, rigide per i nemici.

Per le poche informazioni per ora disponibili, e con riserva di più approfondite verifiche, non pare che sussistessero obbiettivi militari nell'immediata prossimità delle strutture mediche e scolastiche colpite. Il che potrebbe evidenziare una criminosa volontà di colpire direttamente la popolazione (per lo più di fede sunnita) delle zone che sostengono la ribellione. Ciò risponderebbe, secondo le accuse alle quali ha dato voce, tra gli altri, il Presidente dell'ALDE Guy Verhofstadt, a una deliberata strategia per aumentare la pressione migratoria verso la Turchia e verso l'Unione Europea, tale da indebolire e frammentare l'Unione e rafforzare le forze politiche reazionarie appoggiate dal Cremlino. L'estrema gravità dell'accusa suggerisce in ogni caso una certa cautela nell'esprimere giudizi, anche visto il livello di polarizzazione raggiunta. I gravi fatti dei giorni passati, così come quelli dei cinque anni precedenti, meriterebbero di essere indagati approfonditamente e da un soggetto il più possibile imparziale, al fine di individuare eventuali responsabilità per crimini di guerra in tutti gli schieramenti del bagno di sangue siriano. Difficilmente ciò avverrà. 

Nel frattempo, è singolare il disinteresse dimostrato da gran parte dell'opinione pubblica in relazione ai massicci bombardamenti aerei russi e alle relative vittime civili. Singolare ove si pensi alla immediata attenzione, al seguito appassionato, alle generalizzate accuse di crimini di guerra o - addirittura - contro l'umanità, che fanno da sfondo a pressoché ogni operazione militare condotta dagli USA e dai suoi alleati (e, fra tutti, Israele), con cortei titanici e talvolta problematiche "eccedenze". Un tale genere di pressione, soprattutto se proviene dalla propria popolazione, impone ai leader politici e militari di fare sforzi per arginare il numero di vittime civili, anche a costo di sacrificare alcune opportunità militari. Questa coazione è salutare, e comunque inevitabile in una società aperta, per definizione predisposta alla critica. Lo sforzo di rendere la guerra più umana può essere visto come un obbiettivo minimalista, se non addirittura controproducente, in quanto la renderebbe più accettabile. La storia però ci insegna diversamente: nessuno ha mai rinunciato a una guerra per la disumanità delle sue conseguenze.

giovedì 11 febbraio 2016

Il contratto imposto ai propri candidati dal M5S è valido?


Negli ultimi due mesi, assorbito dalla preparazione a tempo pieno dell'esame di abilitazione alla professione forense, non ho potuto aggiornare il blog. Uscito vincitore dalla lotta, riprendo l'attività su questo blog. Voglio condividere con voi il parere, richiestomi dall'On. Catalano, sulla validità giuridica di un problematico documento che tutti i candidati del Movimento 5 stelle dovranno firmare per essere messi in lista alle prossime amministrative. Il contenuto di tale documento è stato recentemente reso noto da La Stampa e ha fatto un certo scalpore per la previsione di penetranti limiti all'autonomia dell'eletto, a vantaggio delle volontà espresse dai "garanti" del M5S (Grillo e Casaleggio), e per la presenza di una sanzione di 150.000 Euro in caso di violazioni.

A seguire, in sintesi, il mio parere.

Sulla base degli estratti apparsi sulla stampa, la previsione in oggetto pare doversi qualificare come una clausola penale ex art. 1382 del codice civile. Con tale clausola, secondo la tesi prevalente, le parti accettano di predeterminare in via anticipata e forfettaria il danno derivante dall'eventuale inadempimento di una obbligazione. Il danneggiato viene in tal modo esonerato dalla necessità di provare il danno e la sua entità. Rimane, a tutela del debitore, la possibilità per il giudice di ridurre l'entità della penale di ammontare manifestamente eccessivo, ex art. 1384 c.c..

Tuttavia, il complesso delle disposizioni del contratto, comprensivo della clausola, non ha una funzione primariamente patrimoniale. Infatti, la funzione del contratto, esplicitata dai suoi proponenti e pure ricavabile dall'insieme delle disposizioni, è quella di limitare gravemente l'autonomia politica dell'eletto. E ciò non solo in relazione al mantenimento dell'appartenenza al partito, ma addirittura nell'esercizio delle principali funzioni istituzionali, coartando la volontà dell'eletto a vantaggio di soggetti estranei all'Istituzione di appartenenza e privi di mandato elettorale.

Ciò pare in contrasto con il divieto di mandato imperativo. Sebbene l'art. 67 si riferisca ai soli membri del Parlamento, si ritiene pacificamente che il divieto abbia la natura di principio generale dell'ordinamento (v. T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, sez. I, sentenza del 9 marzo 2009, n. 75). Inoltre, anche la Carta Europea delle Autonomie Locali del 1985, firmata in sede di Consiglio d'Europa riafferma, all'art. 7 il divieto di mandato imperativo in riferimento, appunto, agli enti locali. Vale la pena di ricordare che la Legge. 30 dicembre 1989, n. 439, di ratifica ed esecuzione di tale Convenzione internazionale, ha quindi trasfuso questa previsione anche nel diritto interno, tra l'altro con una disposizione che, per la sua origine internazionale, ha una forza superiore alle Leggi ordinarie in virtù del disposto di cui all'art. 117, comma 1, Cost.

Ciò premesso, ritengo che il contratto, almeno in riferimento alle disposizioni qui esaminate, dovrebbe essere considerato nullo ai sensi dell'art. 1418 c.c., poiché la sua causa (ossia la sua funzione tipica) è contraria a principi di ordine pubblico, ex art. 1343 c.c.. Certamente, in caso di violazione del contratto, l'eletto potrà essere chiamato a risponderne, politicamente, di fronte agli elettori (come nel caso del noto e non rispettato "contratto con gli Italiani" di Silvio Berlusconi). Al contrario, se convenuto in giudizio, ne uscirà verosimilmente vittorioso.

Come ultima nota, pare allo scrivente che l'impegno assunto dall'eletto possa però qualificarsi come "obbligazione naturale", esecutiva di un dovere morale o sociale ex art. 2034 c.c., con la conseguenza che qualora l'eletto inadempiente paghi la penale, non potrà chiederne la ripetizione in ragione della nullità del contratto.

Anche per ragioni anagrafiche, non ho una lunga esperienza in questioni di nullità di contratti connesse alla loro causa. Anche per questo, mi piacerebbe avere un riscontro sulla condivisione o meno della mia riflessione, e soprattutto potermi confrontare con tesi giuridiche di segno opposto.

A presto