martedì 12 luglio 2016

#FederazioneEuropea, il migliore tra i futuri possibili.

Pochi giorni fa, si è tenuto un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione Europa, conclusosi con la vittoria del fronte del leave. Se, come pare ormai inevitabile, si avvierà la procedura per l'uscita della Gran Bretagna dall'UE, assisteremo al più significativo regresso del processo di integrazione europea.

Molti, anche qui in Italia, si rallegrano dell'esito referendario, auspicando la disintegrazione dell'Unione. Ormai, additare l'UE come responsabile di tutti i mali del continente è diventato un cliché in ampi settori della società, e tra i politici che la rappresentano.

Possiamo dare per assodato che il progetto europeo, così come realizzato ad oggi, soffre di due importanti limiti. Il primo è quello della legittimazione democratica. Malgrado gli interventi correttivi da ultimo previsti nel Trattato di Lisbona, la maggior parte degli organi dell'UE non sono dotati di diretta legittimazione democratica e, in ampi settori, il Parlamento ha un potere limitato. I maggiori poteri decisionali, all'interno dell'UE, risiedono ancora nel Consiglio e negli Stati Nazionali che lo compongono.

Il secondo limite è implicito nell'idea stessa di un'integrazione solo economica. L'integrazione non è uno status, ma un processo. Negli anni '60, l'economista Béla Balassa ha proposto uno schema, apprezzato ancora oggi, dei diversi, progressivi stadi di integrazione economica. Con ogni passo in avanti, si risolvono delle problematiche della situazione precedente, ma se ne creano delle nuove che dovranno, a loro volta, essere affrontate. L'Unione Europea è oggi arrivata, per i paesi della zona Euro, al penultimo stadio, ossia quello dell'unione economica e monetaria.

A fronte dello shock provocato dalla crisi finanziaria globale, poi diventata per noi crisi dei debiti sovrani, questa unione monetaria non sta funzionando. Secondo alcuni studiosi, i recenti, negativi sviluppi  dimostrano che l'Europa, attualmente, non è un'area valutaria ottimale.  A costo di semplificare, possiamo dire che, secondo questa teoria, una moneta unica può prosperare solo nell'assenza di shock asimmetrici, in presenza di una forte mobilità dei fattori produttivi e magari in presenza di sistemi di riequilibrio fiscale, anche di tipo federale. Elementi che, ad oggi, risultano problematici. A fronte di una politica monetaria unica, gli Stati europei continuano a porre in essere politiche fiscali separate, solo esternamente irrigidite - in negativo - da vincoli di bilancio, ma senza strumenti di riequilibrio. Non sono il solo a dubitare che una tale cesura tra una politica monetaria comune e politiche fiscali possa continuare indefinitivamente, alla luce dei profondi squilibri dell'eurozona. Il timore è che, se non si fanno passi avanti, sarà inevitabile farne indietro, regredendo significativamente nel processo di integrazione.

Fare un passo avanti significa, necessariamente, avviare l'integrazione politica. Con l'unione monetaria, siamo arrivati al livello massimo dell'integrazione "solo" economica. Il limite del funzionalismo economico è stato raggiunto. Diventa a questo punto necessario iniziare a mettere  in comune, a un livello ben più alto dell'attuale, anche le politiche fiscali, e quindi la spesa pubblica. Per fare questo, però, è necessario dare vera legittimità democratica alle istituzioni che dovranno gestire tale spesa (e quindi, direttamente o meno, le risorse raccolte attraverso la tassazione). Di fatto, è la logica insita nel principio del no taxation without representation che mi porta a guardare con sfiducia, almeno nel lungo termine, a tutte le soluzioni para-federali posticce sulle quali si sta riflettendo pur di mantenere viva l'illusione della sovranità nazionale. Esse finirebbero per acuire il problema della democraticità dell'Unione, indebolendone di fatto le fondamenta.

Solo una vera Federazione può consentire un'evoluzione del processo di integrazione davvero rispettosa del principio rappresentativo. Uno Stato plurinazionale, con un'unica soggettività internazionale, ma con un potere centrale limitato e ampie riserve di competenza ai singoli stati federati. Almeno inizialmente, è impensabile che un tale progetto possa estendersi a tutti gli Stati dell'Unione: i candidati al progetto federale sarebbero i membri fondatori CEE e gli stati della zona euro. Si creerebbe un sistema di integrazione differenziata, con la persistenza dell'Unione Europea, e al suo interno, come perno centrale, la Federazione. Certe problematiche paiono difficili da sormontare. Si pensi, anche da un punto di vista simbolico, alla complessità delle negoziazioni per individuare la capitale federale!

D'altra parte, pensiamo a qual'è l'alternativa. La costituzione di un mercato più ampio e privo di barriere non è il fine per il quale è stato iniziato il processo di integrazione, ma il mezzo. Il principale fine era è quello di impedire un nuovo conflitto tra gli Stati europei. Non a caso, il primo step del processo è stato la costituzione di una Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, all'interno della quale condividere liberamente e senza discriminazioni queste risorse, fondamento dell'industria bellica. I promotori dell'iniziativa non erano interessati a ottimizzare la produzione o favorire i commerci. Intendevano invece prevenire il riaccendersi della competizione franco-tedesca per il controllo delle risorse siderurgiche site nelle aree vicine al confine renano e nel Benelux, competizione che veniva riconosciuta fra le cause economiche scatenanti dei due conflitti mondiali.

Il consolidarsi di mercati nazionali chiusi porta necessariamente ad una competizione tra i relativi Stati nazionali, per assicurare ai propri capitali l'accesso a determinati territori, altrimenti escluso. Circostanze particolari e politici illuminati possono temporaneamente mediare i conflitti, che però rimangono latenti, in quanto strutturali. Anche in caso di crollo dell'UE, una guerra tra i paesi ex-membri pare oggi impensabile, almeno nei prossimi anni. E tuttavia, più ci proiettiamo nel futuro, più la possibilità di un nuovo conflitto acquista una sua consistenza. Dopo tutto, le nazioni non vivono nei decenni, ma nei secoli (se non nei millenni). Inoltre, se pure fosse impensabile una guerra classica, sul campo, tra due grandi nazioni europee, risultano ipotizzabili, anche nel breve termine, forme di scontro violento. Al di là della possibilità astratta di sabotaggi sul territorio nazionale o attacchi contro agenti o contro la popolazione civile, un conflitto potrebbe ben prendere la forma di una guerra per procura. Davvero pare così impensabile la prospettiva di uno scontro aperto tra fazioni tribali in Libia, ciascuna sostenuta da una potenza di riferimento, per il controllo delle risorse energetiche? Che influenza ha già dato, negli ultimi, recentissimi anni, lo scontro tra le sovranità nazionali alla destabilizzazione del Nord Africa?

L'Europa è circondata, a sud e ad est, da un ampio arco di destabilizzazione. Se consentiamo agli egoismi nazionali di prevalere, il caos si estenderà ulteriormente, e - in ultima analisi - molti più uomini moriranno. Ma è inutile lanciare generici appelli solidaristici paneuropei. Dobbiamo invece creare le condizioni strutturali che rendano obsoleto il conflitto nazionale in Europa - per ora solo sopito, ma non definitivamente superato, dall'Unione Europea. Una Federazione Europea non inaugurerà una nuova era di pace e amore, ma quantomeno eviterà che la guerra si estenda entro i suoi confini. E consentirà, soprattutto, di trasformare in realtà l'interesse comune europeo alla pacificazione del proprio limes, oggi ostacolato dai maggiori vantaggi che il singolo Stato può ottenere, a scapito degli altri, dalle dinamiche violente in atto. Già solo per questo, la prospettiva di un'Europa federale è l'unica che mi dia un minimo di ottimismo. E ciò senza considerare quanto una politica federale potrebbe fare per ridare una prospettiva alle classi popolari, per gestire razionalmente la grande questione migratoria, per affrontare il cambiamento climatico, per pianificare delle vere reti transeuropee di trasporto, per ottimizzare infinite voci di spesa a cominciare da quelle militari.