venerdì 25 marzo 2016

Diem25: il progetto di Varoufakis per... l'integrazione europea?

Ieri sera ho partecipato all'incontro organizzato dal Democracy in Europe Movement 2025 - Diem25 presso l'acquario di Roma, un progetto promosso dall'ex ministro degli esteri ellenico Yanis Varoufakis. L'obbiettivo di Diem25, come esposto dal suo promotore, non sarebbe quello di formare una nuova confederazione di partiti di sinistra in Europa, né di creare nuovi partiti nazionali, ma di sviluppare, nella società civile, una piattaforma politica di sostegno alla democratizzazione dell'Europa. "The European Union will democratize or it will disintegrate": questo è il messaggio centrale di Varoufakis, più volte ripetuto durante la serata.

Ma cosa intende Diem25 con "democratizzazione dell'Europa"? Il concetto pare decisamente più ambizioso di come è stato riduttivamente interpretato da una parte dell'auditorio.

Come si legge nella versione estesa del Manifesto per democratizzare l'Europa (qui in lingua originale), "gli europei hanno il diritto di esaminare l’avvenire dell Unione, e il dovere di trasformare l’ Europa (all’orizzonte 2025) in democrazia piena e intera, dotata di un Parlamento sovrano che rispetta l’autodeterminazione nazionale e condivide il potere con i parlamenti nazionali, i consigli regionali, i consigli comunali". Per questo, nel termine dei prossimi due anni, il movimento si prefigge l'obbiettivo di convocare "un’assemblea costituente composta da rappresentanti eletti nelle liste transnazionali" che "avrà il potere di decisione su una futura costituzione democratica".

Da queste poche righe, si può cogliere non solo l'anelito europeista del progetto, già ricavabile nelle premesse del testo, ma anche una visione di stampo effettivamente federale della futura Europa. Si parla infatti di un Europa costruita su vari livelli di governo, nella quale anche il livello più alto gode di piena legittimazione democratica. Il progetto accoglie con forza i principi di sussidiarietà verticale, di prossimità e di decentramento, con un'espressa valorizzazione dei livelli substatali. L'interpretazione del Manifesto alla luce del principio di sussidiarietà consente poi di risolvere l'apparente contraddittorietà insita nell'obbiettivo che il movimento si è posto per i prossimi 12 mesi. Esso consiste infatti nell'"europeizzare le quattro questioni" rispetto alle quali i governi nazionali non hanno modo oggi di agire, ossia debito pubblico, banche, insufficienza di investimenti, flussi migratori e aumento della povertà, limitando nel contempo "le prerogative arbitrarie di Bruxelles e rendendo il potere ai parlamentari nazionali, ai consigli regionali, ed ai comuni".

Da una parte, Diem25 prefigura un assemblea costituente e un legislatore europeo pienamente rappresentativo, il che implica il venir meno - o quantomeno la forte limitazione - del persistente potere dei governi nazionali nell'emanazione degli atti dell'Unione. Dall'altra parte, con una scelta probabilmente non casuale, il Manifesto non utilizza, neppure una volta, i termini federazione e federale. Verosimilmente, tali termini sono al momento invisi a una parte del popolo cui si rivolge Varoufakis - cosa che ho potuto constatare personalmente a margine dell'incontro. E, altrettanto verosimilmente, la futura natura federale, confederale, o di altro tipo dell'Unione rappresenta una scelta che Diem25 desidera demandare alla prevista assemblea costituente.

In conclusione, sono rimasto positivamente colpito dall'incontro con Diem25. Da un lato, l'incontro di Roma per alcuni aspetti e temi sembrava una tipica assemblea internazionale dell'area della sinistra parlamentare, dall'altra ha saputo portare all'attenzione di tale area una posizione innovativa sull'Europa. Da troppo tempo, ormai, una parte della sinistra politica sembra orientarsi verso una chiusura nazionale, se non proprio nazionalistica. Ciò avviene contestualmente all'insinuarsi nell'orizzonte della sinistra italiana (e non solo) di personaggi e tesi di stampo marcatamente comunitarista, sovranista o euroasiatista. Il progetto di Varoufakis indica la direzione opposta. Devo ammettere che non ero riuscito a cogliere questo aspetto del politico greco durante il suo mandato come Ministro dell'Economia. Il fatto che alcuni temi diventino oggetto di dibattito al di fuori del ristretto ambito della élite liberal-europeista è uno sviluppo significativo, che potrebbe consentire un dibattito più ampio e ricco sul futuro dell'integrazione del continente.

lunedì 14 marzo 2016

Legittima difesa: una modifica necessaria?

L'aula della Camera si appresta a votare una proposta di Legge (C. 2892) in materia di legittima difesa, presentata da alcuni deputati del Gruppo della Lega Nord, che hanno però ritirato nel frattempo la propria firma, ritenendo insoddisfacente la riformulazione del testo operata in Commissione Giustizia. Il deputato Catalano mi ha chiesto di illustrargli sinteticamente la questione, anche al fine di confrontarci sull'opportunità di una tale modifica normativa. Preliminarmente, è opportuno descrivere l'istituto della legittima difesa.

La legittima difesa, prevista dall'art. 52 codice penale, è una causa di giustificazione. Si intende, con tale termine,  una situazione in presenza della quale l'agente, pur realizzando un fatto astrattamente individuato come reato da una norma incriminatrice, non viene punito, in quanto il suo comportamento è considerato giuridicamente lecito. Per quanto di nostro interesse, l'agente non risponde dell'omicidio o delle lesioni provocate al suo aggressore, in presenza dei requisiti della legittima difesa indicati dall'art. 52, comma 1, c.p.. Tali requisiti consistono nella necessità di difendere un diritto, anche altrui, nel pericolo attuale di un offesa ingiusta, e nella proporzione tra quest'ultima e la difesa.

Da tempo la giurisprudenza ha chiarito che tale ultimo requisito, che spesso viene valutato congiuntamente a quello della necessità, deve guardarsi alla luce dei beni giuridici rispettivamente messi in pericolo o danneggiati da offesa e difesa. Non è richiesta una perfetta equivalenza, potendo l'azione difensiva anche travalicare la misura di quella offensiva. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si ritiene non proporzionata la difesa che vada a colpire beni giuridici eterogenei e di rango maggiore rispetto a quello messo in pericolo o offeso dall'aggressore. Per esempio, non è proporzionato l'omicidio determinato dalla necessità di tutelare il solo patrimonio (v. Cass. n. 45407/2004). Neppure è proporzionata la lesione dell'incolumità personale, a fronte di un'offesa solo verbale (v. Cass. n. 2121/1985). Comunque, è necessaria una valutazione caso per caso, operata ex ante, sulla base della gerarchia tra i beni giuridici ricavabile dalla Costituzione.

Se l'agente travalica i limiti della legittima difesa, compreso quello della proporzione, deve rispondere, a seconda dei casi, per il reato doloso o colposo (in quest'ultimo caso si parla di eccesso colposo, previsto dall'art. 55 c.p.) corrispondente al fatto tipico posto in essere. Ai sensi dell'art. 59, comma 4, c.p., risponde poi del reato colposo l'agente che per errore determinato da colpa, ritiene esistente una causa di giustificazione invece inesistente (c.d. scriminante putativa).

Già nel corso della XIV° legislatura, con la Legge 13 febbraio 2006, il legislatore è intervenuto a modificare l'istituto, prevedendo un particolare regime per la legittima difesa domiciliare (art. 52, comma 2, c.p.), applicabile nei casi di violazione di domicilio. In tali casi, la difesa è sempre considerata proporzionata, se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi rientranti nel concetto di domicilio  di cui all'art. 614 c.p."usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione".

Si tratterebbe, come confermato da recente giurisprudenza (v. Cass. n. 28802/2014), di un'ipotesi speciale di legittima difesa e non di una nuova, autonoma, causa di giustificazione. La particolarità consiste nell'esistenza di una presunzione assoluta di proporzionalità tra offesa e difesaD'altra parte, questa previsione è a ben vedere temperata dai requisiti, cumulativi di cui alle lettere a) e b) dell'articolo 52, comma 2 c.p.. Anche nel secondo caso, a ben vedere, la difesa non è limitata al solo patrimonio, poiché deve esserci un pericolo di aggressione, e quindi una minaccia all'incolumità personale. In tal senso, la Suprema Corte, con sentenza Cass. n. 12466/2007, ha affermato che, anche dopo le modifiche del 2006, "la legittima difesa domiciliare non consente un’indiscriminata reazione nei confronti del soggetto che si introduca fraudolentemente nella propria dimora, ma presuppone un attacco, nell’ambiente domestico, alla propria o altrui incolumità, o quanto meno un pericolo di aggressione".

Per alcune forze politiche, e in particolare per la Lega Nord, già promotrice della modifica del 2006, l'attuale struttura della scriminante risulta troppo restrittiva, poiché non rende legittimo ledere, o addirittura uccidere, un intruso nella propria dimora. Per questo, si è arrivati a un ulteriore tentativo di riforma. Se fossero state approvate le modifiche all'art. 52 c.p. proposte dal Senatore Molteni, si presumerebbe la legittima difesa in capo a colui "che compie un atto per respingere l'ingresso, mediante effrazione o contro la volontà del proprietario, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di persona travisata o di più persone riunite, in un'abitazione privata, o in ogni altro luogo ove sia esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale". I termini usati consentono di qualificare la presunzione come relativa (ossia salvo prova contraria), anche perché, diversamente opinando, la norma diventerebbe di dubbia compatibilità costituzionale, oltre che pericolosa da un punto di vista pratico. Ci si potrebbe poi interrogare se la "violenza o minaccia dell'uso di armi da parte di persona travisata o di più persone riunite" si riferisca, come sembrerebbe, anche al caso di effrazione.

Ciò premesso, non si comprende bene in cosa andrebbe a cambiare l'assetto della legittima difesa. Infatti, già secondo la legislazione vigente, in caso di dubbio circa l'esistenza di una causa di giustificazione, il giudice deve assolvere l'imputato, ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 3. Con tale norma il legislatore ha codificato, anche in riferimento alle cause di giustificazione, l'ordinaria regola in tema di presunzione di non colpevolezza dell'imputato, al fine di superare un orientamento giurisprudenziale di senso contrario, sviluppatosi nella vigenza del precedente codice di procedura penale. Per cui, già oggi, in caso di dubbio, la legittima difesa si presume sussistente salvo prova contraria. E quindi, l'onere della prova già incombe sull'accusa.  A cosa serve allora la proposta Molteni? Sembrerebbe a nulla (giuridicamente, si intende, al netto di ogni possibile uso politico), se non ad appesantire ulteriormente l'art. 52 c.p..

Il testo però, come premesso, è stato radicalmente mutato dalla Commissione Giustizia. La nuova formulazione andrebbe a toccare non più l'art. 52 c.p., ma l'art. 59 c.p., in materia di legittima difesa putativa, prevedendosi che "la colpa dell'agente è sempre esclusa se l'errore riferito alla situazione di pericolo e ai limiti imposti è conseguenza di un grave turbamento psichico ed è causato, volontariamente o colposamente, dalla persona contro cui è diretto il fatto". A differenza che nel testo originale, vi è una presunzione, assoluta e quindi insuscettibile di prova contraria, di assenza di colpa in capo all'agente, al ricorrere di alcuni presupposti. La Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, nel proprio parere sulla proposta, ha evidenziato l'opportunità di "chiarire meglio il riferimento ai «limiti imposti» contenuto nel testo alla luce dei princìpi costituzionali di tassatività e determinatezza della fattispecie". Condivido tale osservazione, anche se sono altri i profili che più mi rendono perplesso.

Come si è visto, la presunzione opererebbe in presenza di un errore, conseguente a un grave turbamento psichico, a sua volta causato per dolo o colpa dalla persona contro cui è diretta la difesa. Per cui i giudici dovrebbero accertare prima di tutto l'esistenza di un grave turbamento psichico in capo all'agente nel momento del fatto. In caso di esito positivo, dovrebbero accertare un doppio nesso causale: quello tra l'offesa dell'intruso e il turbamento, e quello tra quest'ultimo e la difesa "eccessiva" posta in essere dall'offeso. E' significativo che nessuno di questi elementi sia suscettibile di essere accertato materialmente e oggettivamente, in quanto essi riguardano uno stato psichico. Lo stesso concetto di "grave turbamento psichico" appare poi di assai incerta delimitazione, e rischia di tradursi in una nuova fonte di arbitrio giurisprudenziale. Per diversi anni, fino a che non si disporrà di una ampia casistica a livello di giurisprudenza di legittimità, si assisterà ad applicazioni difformi della norma. E quando poi, finalmente, il sistema sarà riuscito ad assimilare il nuovo concetto, interverrà magari di nuovo il legislatore, per le proprie finalità politiche, facendo ricadere il sistema nel'incertezza!

Tra l'altro è più che lecito dubitare della portata innovativa delle nuova norma in relazione ai suoi effetti concreti. Abbiamo già osservato che l'accertamento dei presupposti della presunzione assoluta di assenza di colpa non si fonda su elementi di particolare solidità oggettiva. Verosimilmente, i giudici, nel valutarli, finiranno per ritenerli sussistenti in quei casi nei quali, già oggi, ritengono che l'errore in cui è caduto l'agente sia incolpevole. Al contrario, in presenza di un errore che essi - secondo l'attuale normativa - giudicano colpevole, potranno agevolmente ritenere inesistente, o quantomeno non sufficientemente grave, il turbamento psichico dell'agente, ovvero negare uno dei nessi causali (verosimilmente quello tra lo stato psichico e l'azione difensiva) sulla base di massime di esperienza.

In conclusione il mio giudizio sulla proposta, in entrambe le formulazioni, è tendenzialmente negativo. Le continue riforme sono assai deleterie per il diritto penale. Ciò è tanto più vero quanto più esse sono disorganiche, quanto più, anziché ridefinire le regole fondamentali, esse introducono eccezioni ed eccezioni all'eccezione. Ciò è tanto più vero, infine, quanto più le continue interpolazioni sono ravvicinate nel tempo: il diritto vive nella sua applicazione, e necessita di tempo per sedimentarsi e consolidarsi. Visto che, nella pratica, le modifiche saranno pure prive di effetti significativi, il costo (nei termini anzidetti) dell'intervento risulta ingiustificato.

Al solito, vi invito a farmi avere la vostra diversa opinione (motivata) e rimango sempre pronto, nel caso, a farla mia. Solo gli stupidi non cambiano mai idea.

giovedì 3 marzo 2016

Attuazione della Direttiva Mutui 2015/07/UE: violazione del divieto di patto commissorio?

Il 21 gennaio scorso il governo ha inviato alla Camera dei Deputati uno schema di decreto legislativo recante, tra l'altro, "attuazione della direttiva 2014/17/UE in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali". A seguito delle gravi polemiche che ne sono seguite, con l'accusa al Governo, da parte dei banchi delle opposizioni, di favorire illecitamente le banche a a scapito dei cittadini mutuatari, l'On. Catalano mi ha chiesto di valutare la compatibilità delle norme in via di introduzione con il diritto interno italiano e, in particolare, con il divieto di patto commissorio. Infatti, secondo il deputato M5S Daniele Pesco, la possibilità concessa alle banche di vendere l'immobile in caso di mancato, o ritardato pagamento superiore ai 30 giorni, delle rate del mutuo immobiliare, per più di sette volte anche non consecutive, finirebbe per violare tale principio.

Per valutare tale asserzione, è opportuno prima di tutto esaminare la norma "incriminata", ossia l'art. 1, comma 2 dello schema di decreto, laddove introduce nel decreto legislativo n. 385/1993 (Testo Unico bancario) un nuovo articolo 120-quinquiesdecies. Il comma 3 di quest'ultimo articolo prevede che: "le parti del contratto possono convenire espressamente, al momento della conclusione del contratto di credito o successivamente, che in caso di inadempimento del consumatore la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l'estinzione del debito, fermo restando il diritto del consumatore all'eccedenza. Il valore del bene immobile oggetto della garanzia è stimato da un perito scelto dalle parti di comune accordo con una perizia successiva all'inadempimento secondo quanto previsto all'articolo 120-duodecies".

Passiamo quindi a esaminare l'art. 2744 codice civile che prescrive la nullità del patto commissorio, ossia il "patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno".

La ratio di tale divieto è stata lungamente discussa sia in dottrina che in giurisprudenza. Tradizionalmente, si sono confrontate tesi che mettono l'accento sulla tutela del debitore, vuoi per impedire una "illecita coercizione" dello stesso, vuoi per prevenire sproporzioni fra l’importo del debito e il valore del bene oggetto della garanzia, e tesi che invece puntano sulla necessità di tutelare la par condicio creditorum, sia per impedire che, al di fuori delle tipiche cause di prelazione previste dal codice civile, un creditore venga privilegiato, sia per prevenire che alcuni beni siano sottratti al patrimonio del debitore per un importo superiore al valore del debito, in pregiudizio ovviamente agli altri creditori. Peraltro, si sono aggiunte negli ultimi anni ulteriori tesi. In particolare, considerato che la tutela opera attraverso la sanzione della nullità, e quindi erga omnes, anziché con strumenti rimessi alla parte concretamente lesa, si è sostenuto che l'interesse protetto non sia individuale, ma pubblico. Tuttavia, anche circa l'individuazione di tale interesse, si confrontano diverse posizioni.L'individuazione della ratio non è una questione teorica o dottrinaria, ma di immediata rilevanza pratica, per delimitare i limiti del divieto.

In particolare, se la ratio fosse quella di tutelare il patrimonio del debitore da un'eccessiva sproporzione fra importo del debito e bene oggetto della garanzia, rimarrebbe escluso dal divieto il patto marciano. Secondo la descrizione offerta dalla Treccani, "il patto marciano è ignoto alla legge positiva, ma gode di una millenaria tradizione dogmatica, risalendo ad una probabile interpolazione giustinianea di un testo del giurista Marciano, che permetteva al creditore insoddisfatto di appropriarsi della cosa ricevuta in garanzia, purché stimata al giusto prezzo («rem iusto pretio tunc aestimandam»: D.20.1.16.9)".

L'art. 120-quinquiesdecies, proprio in virtù della previsione di una perizia successiva sul valore del bene, con restituzione al debitore dell'eccedenza rispetto all'entità del debito, descrive quindi un tipico patto marciano.

La recente giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. 9 maggio 2013, n. 10986) ha preso una posizione inequivoca. Fondando infatti il divieto di patto commissorio sull'esigenza di tutelare patrimonialmente il debitore da indebite sproprorzioni, la Corte ha infatti escluso che il divieto di cui all'art. 2744 operi in riferimento al patto marciano. Ne consegue, per quanto di nostro interesse, che la previsione contenuta nelle previste modifiche al T.U. bancario non costituisce una deroga, né tantomeno una violazione, della norma di cui all'art. 2744 c.c.. Quest'ultima, in ogni caso, non ha rango costituzionale e ben potrebbe venire modificata, limitata o abrogata da un atto avente forza di Legge, tra l'altro attuativa di obblighi che derivano dall'ordinamento comunitario, ex art. 117 cost.

Più in generale, si deve osservare che il divieto di patto commissorio è in via di limitazione. Gli orientamenti recenti ne hanno contenuto la portata, interpretandolo come uno strumento finalizzato a impedire l'ingiustificato arricchimento del creditore a scapito del debitore. Infatti, nei casi in cui una tale situazione non si verifica, i limiti che il divieto pone all'autonomia contrattuale risultano sempre meno giustificabili. Tra l'altro molti altri ordinamenti europei neppure conoscono un tale divieto e le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sul punto, hanno escluso che il divieto sia ascrivibile all'ordine pubblico internazionale  (v. Martino, M., Le Sezioni Unite sui rapporti tra divieto del patto commissorio e ordine pubblico internazionale, in Giur. comm., 2012, II, 693 s.). Ne consegue che eventuali norme straniere, applicabili in Italia secondo le regole di diritto internazionale privato, possono trovare applicazione anche qualora consentano i patti commissori.