lunedì 30 novembre 2015

Fiancheggiatori dell'(anti)partito della reazione.

Da troppo tempo ormai, nella cerchia di molti miei contatti che si identificano come progressisti o di sinistra, si moltiplicano le citazioni o le condivisioni di personaggi portatori di idee quantomeno ambigue. Non intendo farne il nome, per evitare che l'attacco colpisca le persone, dato che ciò che mi preoccupa sono soprattutto le idee. Se però vi riconoscete nella descrizione iniziale, vi prego, prima di condividere post genericamente "antisistema" di riflettere se per caso presentino le caratteristiche sotto esposte.

Prima di tutto, i loro nemici non sono generalmente il capitale e l'impresa, ma il solo capitale finanziario internazionale e le multinazionali. Essi non difendono "il popolo" come classe, ma "i popoli" come identità etniche, nazionali e religiose. La loro è una battaglia eminentemente spirituale, contro il consumismo e il liberalismo. L'aspetto sociale è meramente sussidiario e funzionale al primo. Si considerano rivoluzionari, e indubbiamente lo sono.

Ma la loro rivoluzione non è la vostra rivoluzione. Non è fascismo, almeno non quello classico delle croci celtiche, faticosamente perpetuatosi a oggi sulla base di ritualità stanche. Quello è un cadavere imbalsamato. Questo invece è energico e vitale, con un identità ancora incerta e contraddittoria, come lo fu un secolo fa l'autonominato "antipartito" di Piazza San Seplocro.

Prima di diffondere e moltiplicare i loro messaggi, non leggete solo i bersagli designati, ma anche le parole d'ordine proferite.

Se volete unire i vostri stendardi ai loro, in una comune lotta alla modernità globalizzata, fate pure. Ma almeno siate coscienti del fatto che, in tal modo, gli state consegnando l'egemonia culturale e simbolica. Vi coopteranno e vi useranno per i loro fini reazionari. E se per caso la loro lotta vincerà, vi distruggerranno, come sempre hanno fatto i loro predecessori, e di voi non resterà nulla.

giovedì 12 novembre 2015

Il terrorismo va studiato e compreso. Ma senza giustificazioni, complicità o ambiguità.


Per chi debba prendere decisioni politiche, guardare all'intifada dei coltelli sotto la sola ottica del terrorismo non è sufficiente. Lo stato di profonda sfiducia, paura, dolore e straniamento in cui versa la gioventù palestinese non può essere ignorato se si vuole contribuire a rimuovere le cause delle cicliche esplosioni di violenza. Non è un caso che lo stesso Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, a puntare l'indice sulle condizioni di vita in cui versano centinaia di migliaia di palestinesi.

E tuttavia, vi è una profonda ipocrisia nell'evidenziare le vittime palestinesi degli ultimi giorni ignorando la circostanza che le abusate categorie di "vittime" e "martiri assassinati" identificano in buona parte persone che hanno deciso di usare gli strumenti a loro disposizione, automobili e coltelli, per uccidere dei passanti  sulla base della loro sola appartenenza etnica. 

Possiamo fare le più comprensive valutazioni sul piano individuale/psicologico e collettivo/sociologico per ricostruire la logica che scatena l'azione omicida. Ma a ben vedere, sulla base del medesimo ragionamento, è comprensibile e spiegabile la scelta del sottoproletariato e della classe media impoverita tedesca di sostenere il nazionalsocialismo. E stando geograficamente più vicino, è comprensibile, sia da un punto di vista individuale/psicologico, sia da uno collettivo/sociologico che chi nasce oggi in determinate sezioni della società israeliana, tenderà a sviluppare sentimenti di paura e odio verso gli arabi, tali da spingerlo anche ad azioni violente o terroristiche.

La sociologia può essere utile per individuare i problemi, ma non può sostituire la politica nella valutazione. I due piani sono logicamente distinti e il mischiarli è un errore logico, talvolta deliberato. La peggiore operazione è infatti quella per cui si riserva, agli "amici" una comprensiva valutazione sociologica, mentre ai "nemici" si riserva un giudizio politico.

E' singolare la disinvoltura con cui il doppio metro di giudizio venga applicato proprio da chi non perde occasione per denunciare "l'ipocrisia dell'occidente". Ugualmente singolare, da un punto di vista strategico-politico, prima ancora che morale, è che a giustificare il terrorismo siano sedicenti progressisti, sostenitori della eliminazione di Israele per fare spazio a un unico Stato dal mare al Giordano. Riesce difficile immaginare come attentati di questo genere possano portare, nel breve come nel lungo termine, a quella più intensa integrazione sociale, culturale, politica e umana tra le due popolazioni che è condizione necessaria per uno stato binazionale con una minima possibilità di sopravvivere. La strategia politica pare contraddittoria. Sempre che, beninteso, il progetto sia davvero quello di una coesistenza paritaria, e non quello di liquidare la presenza nazionale ebraica in Palestina.

Approfondirò in altra sede perché quest'ultima prospettiva, talvolta palesata, tra l'altro mascherata sotto formule più ambigue, sia inaccettabile. Ma intanto, per quanto mi riguarda, chi accoltella un passante per l'unica ragione che sembra ebreo (o arabo) non sarà mai un eroe, né un martire. E nessuna spiegazione sociologica o psicologica del relativo atto potrà renderlo politicamente o moralmente legittimo.